Con il cosiddetto “movimento dei gilet gialli”, la Francia sta vivendo una mobilitazione politica del tutto nuova e inattesa. Il “modello” francese è speciale, ma le sue particolarità ci inducono comunque a riflettere e a trarre degli insegnamenti. La mobilitazione francese di novembre e dicembre 2018 evidenzia chiaramente le cause della sua radicale originalità. Veniamo ad esaminarle.

In primo luogo, si nota che questa esplosione sociale inattesa coinvolge persone che non avevano alcuna affiliazione politica o sindacale o che, addirittura, erano depoliticizzate o disinteressate alla politica. Questa indifferenza nei confronti della politica era legata allo status (molti pensionati o lavoratori a basso reddito), al genere (le donne) e alla posizione geografica (campagna, piccole città in tutto il paese). Al contempo, detto movimento ha espresso un forte rifiuto di tutte le organizzazioni politiche o sociali. Primo elemento che balza subito all’occhio è pertanto una crisi profonda dello strumento della delega politica: ci sono segmenti importanti della popolazione francese che intendono dissociarsi dai partiti politici, e che non si sentono e non si vogliono far rappresentare.

In secondo luogo, questa protesta non rappresenta (ancora) un “movimento” sociale, né ha una proposta politica ancora chiara. In una sorta di ribellismo interclassista uno strano mix di tutti i gruppi sociali a basso reddito, con basse aspettative e senza prospettive per se stessi e per la propria famiglia fa sentire il loro risentimento sociale. Solo l’anomia del “gilet giallo” (il colore giallo nel Far East è il simbolo della protesta e della ribellione) pare li accomuni. Sconforto economico-sociale e sfiducia aprioristica si fanno così breccia in una paese “democratico” tra i più sviluppati in Europa.

C’è un modo virtuale che fa da collante a questo magma sociale, e la Francia non è un caso isolato. In Italia è diventato primo “partito” politico un (ex) “movimento” che ha fatto dell'”antipolitica” la sua bandiera dopo anni di denigrazione del sistema partitico, mentre un altro partito (con un’abile operazione di restyling) ha eliminato l’inciso “Nord” e dimenticato le sue ultradecennali istanze secessionistiche raccogliendo consensi anche nel Mezzogiorno: il mantra che ha fatto breccia tra il ceto a basso reddito italiano è stata la lotta sulla questione migratoria, anche se parliamo di aree appannaggio della criminalità organizzata e dove si assiste a una crisi profonda generata dalla recessione. Anche il caos politico e sociale legato alla Brexit è in fondo figlio di questo ribellismo politico incontrollato e che sta producendo effetti davvero paradossali (con scenari ancora tutti da esplorare).

In questa crisi profonda della rappresentanza e della leadership politica avanza così il bisogno dell’uomo forte. L’elevata dipendenza e autoreferenzialità di media e social network amplifica tra le masse la diffusione di bufale, di teorie del complotto, di discorsi d’odio e di ostilità nei confronti dei media tradizionali, e in genere contro “élite” vere o presunte. L’Unione Europea, che ha comunque le sue evidenti responsabilità e che in nome di una ossessiva e teutonica politica rigorista sta facendo pagare agli strati più deboli della società europea costi altissimi, diventa anch’essa un facile target per sfogare tutta questa protesta rabbiosa accumulata negli anni. Ritornano in auge vecchie ideologie di destra e sinistra, l’ignoranza è una virtù e la competenza diventa una colpa. Si tagliano selvaggiamente le risorse alla scuola e alla cultura. Si assiste impotenti al dilagare di deserti industriali senza contrapporre alcuna programmazione economica e gestendo solo il day by day dell’emergenza con fondi e risorse sempre più contingentate.

Occorrerebbe che le “élite” politiche tornassero (anche e soprattutto a Sinistra) a stabilire un nuovo contratto con le “masse” che vorrebbero rappresentare. Il 2019 potrebbe essere uno spartiacque importante nella continua evoluzione dei sistemi democratici. Il rischio di derive autoritarie è sempre più alto e c’è poco tempo per rimediare. Le mille banlieue delle città europee sono infine chiamate alla sfida dell’inclusione: da qui è partito il terrorismo di matrice islamica, e in questi luoghi si amplificano le fragilità e le tensioni tra i diversi mondi di un pianeta sempre più globalizzato.

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Alessandro Pellegatta è nato nel 1961 a Milano, dove vive e lavora. Si dedica da anni alla letteratura di viaggio. Per FBE ha pubblicato nel 2009 un libro sull’Iran (Taqiyya. Alla scoperta dell’Iran), mentre per Besa editrice ha pubblicato i reportage Agim. Alla scoperta dell’Albania (2012), Oman. Profumo del tempo antico (2014), La terra di Punt. Viaggio nell’Etiopia storica (2015), Karastan. Armenia, terra delle pietre (2016), Eritrea. Fine e rinascita di un sogno africano (2017), Vietnam del Nord. Minoranze etniche e dopo sviluppo (2018). Il 28 febbraio 2019 uscirà un suo nuovo volume dedicato alla storia dell’esplorazione italiana in Africa intitolato Manfredo Camperio. Storia di un visionario in Africa. Due nuove opere sulla storia del Mar Rosso e di Massaua e sull’Algeria sono al momento disponibili in versione ebook su Amazon Kindle. Partecipa da anni ad eventi e convegni relativi alla cultura di viaggio, e collabora con svariati siti e riviste sui temi legati alle minoranze etniche e la difesa dei diritti dell’uomo.