Robinho e Neymar si danno il cinque per festeggiare un gol della Seleçao

L’ennesima bruciante sconfitta della nazionale brasiliana ai quarti della Copa America in corso in Cile pone un importante quesito sul futuro del calcio verdeoro. Quali sono le principali problematiche di una nazionale che non riesce più a vincere e a produrre campioni di livello mondiale. Dopo le cadute fragorose negli ultimi tre mondiali (2006, 2010 e 2014) e le ultime due deludenti Copa America (2011 e 2015), il calcio brasiliano è in piena crisi d’identità. Personalmente ritengo che esistano due precise concause che hanno determinato questa grossa ed apparentemente insuperabile crisi.

La prima è una causa di natura tecnico/tattica: il calcio brasiliano ha perso le sue specialità. Grandissimi giocatori di fantasia, esterni di difesa che si trasformano in alì, bomber dall’istinto omicida erano i ruoli in cui i brasiliani avevano un grado di specializzazione che nessun’altra nazione del mondo poteva vantare. Oggi, invece, si esportano portieri belli da vedere ma con limiti evidenti, difensori tecnici ed eleganti ma sempre inclini all’errore, polmoni di centrocampo, esterni capaci di fare le due fasi ma mai incisivi. Il risultato è presto servito: le ultime nazionali hanno presentato un solo grande campione (Neymar), un paio di giocatori di fascia alta (Dani Alves e Thiago Silva) e tanti mezzi giocatori sopravalutati (qualche esempio David Luis, Casemiro, Wilian, Robinho). Tanti buoni prodotti da svendere nel mercato europeo ed asiatico, perché comunque i brasiliani fanno sempre audience, ma incapaci di diventare ingranaggi di una macchina che deve vincere e comunque elaborare “futbol bailado”. Già a suo tempo grandi tecnici come Vanderli Luxemburgo e Carlos Alberto Pereira si sono dimostrati molto critici nei confronti di questo mutamento dello “stile brasiliano”, in forma più difensivista, cinica e pratica, e l’attuale allenatore, Carlos Dunga, è messo quotidianamente alla gogna per il calcio troppo “europeo”, e poco avvincente, giocato dalla sua nazionale. Una contraddizione difficile da superare: privilegiare l’interesse economico o l’interesse nazionale? Continuare a produrre prodotti da esportazione e modificare definitivamente la struttura tecnica del calcio brasiliano o provare a trattenere alcuni calciatori e ricreare una nazionale capace di riproporsi ad altissimi livelli con il calcio tecnico e spettacolare?

Una seconda causa è il totale e completo fallimento di quella cha avrebbe dovuto essere la generazione di traino di questa decade. Maicon 33 anni. Ricardo Kakà 33 anni. Adriano 33 anni. Ronaldinho 35 anni. Robinho 31 anni. Cinque talenti assoluti (ai quali potremmo comodamente sommare Pato, che ha appena 25 anni) che avrebbero dovuto e potuto nelle ultime stagioni della loro carriera svolgere il ruolo che ebbero Cafù (31), Roberto Carlos (29), Rivaldo (30) o il secondo portiere Rogério Ceni (29) nel Mondiale del 2002, cioè quello di generazione che traina il gruppo dei più giovani e meno esperti. Certo, il paragone è impietoso con il Brasile che vinse il Mondiale del 2002 (in quella squadra giocavano tre palloni d’oro, come Rivaldo, Ronaldinho e Ronaldo, due dei più forti terzini di ogni tempo come Cafù e Roberto Carlos, un centrocampo tosto e una difesa efficace) ma è evidente che siamo davanti ad un fallimento generazionale che ha una difficile spiegazione sociologica, anche vista la diversa provenienza sociale dei quattro calciatori, se non la (forse) casuale militanza nelle due squadre milanesi.

Marco Bagozzi