Quel che vogliamo fare, è raccontare un’impresa che certamente a quel tempo apparve temeraria, come del resto lo apparirebbe oggi, senza con ciò assumerci alcuna particolare presa di posizione. Il lettore potrà notare, da certi passaggi, uno spirito “militare” che magari lo lascerà spiazzato. Ma del resto ciò è quanto si poteva rinvenire nei documenti e negli scritti di quell’epoca, di un paese che era in piena guerra. Si tratta dunque di un’importante testimonianza storica, che è giusto esaminare proprio in virtù del suo incontestabile e prezioso valore di testimonianza di un’epoca che a noi appare oggi enormemente lontana.

Il Volo su Vienna – La Spada di Damocle. L’elogio dell’ottimismo

Mentre la Germania ha inventato e imposto la guerra grigia, la guerra monotona, guizzano su dal tenace valore italiano episodi di raggiante bellezza. La genialità latina emerge in rilievi nervosi dalla massa uniforme dei combattenti. Ecco il forzamento di Pola, ecco la meraviglia di Premuda, ecco il volo degli aeroplani italici su Vienna. Che dicono le spesse cotenne nemiche? Da noi, un poeta inventa per sé e per i suoi fratelli nuovi modi di guerra, immagina audacie più libere ed eleganti, e le compie. Tutta la macchinosa scienza tedesca, elaboratrice di dottrine crudeli e di gas velenosi, non sarebbe capace di ideare il periplo celeste, gloriosamente incruento, minacciosamente leggero che Gabriele d’Annunzio ha preparato ed attenuato.

Gli aviatori austrotedeschi sono stati capaci di brutalità sinistre, entro la cauta provocazione della notte; volarono più volte su Venezia e tentarono in tutti i modi di guastarla. Fuggirono poi nel buio di dove erano venuti. L’alba trovò la città più scalcinata qua e là, ma più regale di prima; vide solo qualche madre singhiozzante col suo bambino ucciso. Gli aviatori nostri sono partiti di giorno per il più vasto volo di guerra che mai sia stato tentato, hanno costellato di tricolori il cielo di Vienna, scivolando, ondeggiando, scorrendo entro lo splendore del mattino, temerari e schernitori, godendo la gioia di essere sulla capitale nemica stupefatta e umiliata, costringendola a mirare la bellezza della nostra bandiera. E quando sono ripartiti, c’erano molti grossi ufficiali lividi d’ira, ma non un bambino piangeva, non una madre si disperava sul suo nato. Alcuni mesi or sono un aviatore tedesco, catturato, disse: “Smettetela, italiani, di gemere dopo ogni nostra incursione sulla solita donna o il solito bambino ucciso dalle nostre bombe. Noi veniamo apposta per ucciderli”. E noi italiani, invece, non vogliamo uccidere le creature inermi. Ecco dove sta, non solo la differenza tra le due razze; ma anche la ragione di due guerre, la loro e la nostra. Se noi avessimo voluto, oggi, a Vienna, ci sarebbero centinaia di morti. Non occorreva neppure lanciare delle bombe; bastava che i nostri aviatori avessero scaricato sulla folla le loro mitragliatrici. Avreste, allora, sentito gli austriaci, eroi delle notturne incursioni su Venezia, Padova e Treviso strillare contro la crudeltà italiana, perché questi nostri nemici hanno il primato della smemoratezza, della sfacciataggine e dell’incoscienza. Ebbene, i viennesi si sentono oggi più insidiati da pericoli sicuri, che se stessero fuggendo, stridenti e dissennati, sotto le raffiche delle mitragliatrici. Essi non si sentono più padroni dei loro giorni e delle loro notti. Non possono più fidarsi delle ore che sopraggiungono. Temono che il cielo gli inganni e li minacci. E tutte le volte che i loro aviatori compiranno qualche infamia sulle nostre città aperte, correranno a nascondersi sotto il letto o in cantina, prima ancora di udire il rombo dei nostri aeroplani.

Il nostro grande poeta ha inventato, in coraggiosa ilarità, un tormento lungo e acre per Vienna; ha tolto ai viennesi la sicurezza; li ha scossi fuori dalla loro incolumità poltrona, li ha costretti ha temere non solo i nostri aviatori, ma anche i loro. Mentre prima, quei dolci chellerini e operettai di Vienna gongolavano alle notizie di stragi compiute nelle città italiane, ecco che ora, per paura di tremende rappresaglie, sono ridotti a pregare che i voli austriaci rispettino le case italiane. Il coltello piantato di sorpresa nella schiena dell’uomo è meno terribile della spada di Damocle che oscilla sul suo capo, appesa a un filo. Sono rimaste sospese sul cielo di Vienna molte spaventosissime bombe. Signori austriaci, fate un solo gesto, e le farete cadere e scoppiare. Noi siamo orgogliosi di questa bellissima impresa, e siamo felici che l’abbia voluta e compiuta un poeta. C’è chi va indagando come sarà e dovrà essere l’arte dopo la guerra: sia così, alata, originale, potente. Certo, questo volo è anche nella tradizione della poesia italiana. C’è in esso qualche cosa di ariostesco: di riso giovanile; l’eroico e il leggendario fusi insieme, armoniosamente. Gloria a Gabriele d’Annunzio e ai suoi compagni di volo;i soli dannunziani che possiamo ammirare, perché non guastano, anzi integrano l’opera del maestro.

Nobiluomo Vidal

Dal Fronte: A che servono i Poeti

Il ritorno della pattuglia volante della “Serenissima” dal cielo di Vienna era atteso per mezzogiorno, calcolando sei ore per un percorso di mille chilometri. Avvicinandosi quell’ora, le ansie crescevano, tanto più che da un pezzo si vedevano montare all’orizzonte vapori folti e grandi nuvole bianche. La nostra emozione era grande, quantitativamente grande, come se il cuore ci si fosse ingigantito nel petto: non era un evento ordinario, quello: e, popolo ossequiente ai grandi significati, non potevamo mantenerci in nessun modo tranquilli. Quell’evento e quell’attesa tra sfigurava la luce, il tempo, la memoria degli uomini che avevano da ritornare. Solo Gabriellino d’Annunzio, ufficiale aviatore di quel campo, aspettava, pieno di sicurezza, che il padre gli riscendesse da tanto cielo; né più né meno si trattasse di scendere da una loggia in un giardino. Per mitigare la pena, vedevamo di distrarci. Sotto la tettoia, gli altri SVA della squadriglia se ne stavano tutti agghindati, con le tozze ali tricolori, i timoni stellati, il leone di S. Marco, col “pax tibi” ben disegnato e ben dipinto sul fianco delle fusoliere. Pensavo: hanno fatto bene a consentire che partisse sopra una barchetta così leggera, per una meta così distante, quel che di meglio avevamo fra noi, Gabriele d’Annunzio? Per un qualunque ignorante che l’Austria può mandarci a fracassare qualche bella cupola di chiesa, noi osiamo mandare un così grande scrittore, quasi per un gesto di cavalleresca spavalderia? Merita tanto rischio dei nostri migliori? Mandarcelo o no: avrebbe voluto offendere la sicurezza ch’egli mostrava di riuscire? In verità, nessuno avrebbe potuto dire a questo soldato, a questo maggiore di cavalleria: “fatti indietro, poeta”, tante e continue furono le prove di buona pratica guerresca ch’egli ha dato di sé dal principio della guerra. I vecchi militari intelligenti si guardano bene dal disconoscere la sua opera di soldato. Anche Diaz, ho sentito che ne parla con un premuroso rispetto.

“Eccoli, eccoli”, gridarono molte voci sul campo: e del gran tuffo che il cuore ci fece in petto, ci accorgemmo quant’era stata forte fino a quel momento la nostra passione.

Un primo apparecchio giunge rapidissimo, sul campo. Chi sarà? Chi mancherà? Quasi per burlare la nostra inquietudine, per rimproverarci quel po’ di fede che ci è mancata, lo SVA prima di scendere a terra esegue evoluzione di crudele raffinato indugio sulla nostra folla meschina: dopo sei ore e mezza di volo ci volevan proprio questi scherzi! Finalmente lo vediamo toccar terra sollevano sul verde campo dove battono le ruote, nuvolette di terra rossa. E’ il tenente Censi. Le prime parole che dice sono; “a 700 metri su Vienna”. Altre grida sul campo, altri apparecchi in formazione serrata all’orizzonte, che rapidamente ingrandiscono: uno, due, quattro e infine sei. Dunque manca un apparecchio? Ma a Vienna ci sono arrivati.

Secondo a toccar terra è il biposto che porta il Capitano Palli e il Comandante d’Annunzio. Tutti si precipitano loro gridando evviva, ridendo, piangendo. D’Annunzio si leva il casco di volatore e grida: Gloria alla “Serenissima”. Non ha in viso segno di stanchezza: la gran gioia di quello ch’è riuscito a fare e di quello che visto gl’illumina la faccia. Si rivolge verso il suo pilota Palli e lo bacia, poi esclama: “Bisogna glorificare quest’uomo, per lo straordinario senso di orientazione che ha”. Allora ho capito quanto è sincero in d’Annunzio quell’antico bisogno di “laudare”, con quanto generoso entusiasmo  egli suole intendere gli uomini e le opere, il valore civile che annette alla proclamazione dei meriti. Del resto, chi avrebbe cuore di obbiettare qualcosa? Questi due uomini ancora chiusi nella stessa gabbia di legno leggero vengono da Vienna. Palli scende a terra, si leva la cuffia e il pellicciotto, appare un ragazzo di piccola statura, di miti occhi azzurri e capelli fulvo chiari. D’Annunzio senza discendere da quel piccolo pulpito che lo ha portato fin sulla cattedrale viennese di Santo Stefano domanda: “Dov’è fra Ginepro”? Piace in un momento come questo l’allegria del Comandante. Fino a questo momento vivevamo in versi e rima, l’emozione ci mungeva troppa vita del cuore. Il cerchio del grande stupore è rotto, d’Annunzio vuol rivedere e baciare i suoi compagni; dopo il ditirambo vien la prosa intima e scherzosa. Fra Ginepro  non è altri che il tenente Allegri di Mestre, un sottotenente di artiglieria con grande e riccia barba bionda, che ha vissuto lungamente a Vienna.: pilotava uno dei due SVA che proteggevano quello disarmato dei capi – pattuglia. L’altro era pilotato dal tenente Locatelli.

Le altre cinque macchine ormai erano discese a terra e attorno ad ogni nuovo arrivato era corsa subito gente, eran gridi, battimani ed abbracci. Ma come si fa a scostarsi dal velivolo di d’Annunzio?

D’Annunzio racconta come gli è apparsa Vienna tra le colline e la sponda del Danubio: ed egli sa – quello che gli altri giovanotti non saprebbero fare – sa metterci con due parole sotto gli occhi la città, le ville, le strade. Per virtù della sua parola un po’ di quello spettacolo e di quella gioia che il poeta ha provato giungendo a Vienna l’abbiamo potuta provare anche noi che ora stavamo a sentirlo. Raccontata da altri, non ci avrebbe fatto lo stesso effetto. Certo io non commetterò adesso l’imprudenza di rabberciare a modo mio il racconto di d’Annunzio.

Ecco d’Annunzio fra noi, disceso a terra, con un gran maglione e grandi calzeroni di lana. Come fa presto a corrompersi l’aria anche nelle feste più belle! Non sono passati forse venti minuti dallo storico atterramento dei sette apparecchi, che già cominciano i discorsi accademici, le ambascerie dei varii corpi, i mirallegro, le fotografie in gruppo, il solito gergo delle inaugurazioni e delle bicchierate degenera in festa di famiglia. Io non posso dimenticare un minuto che questi otto uomini tre ore fa erano su Vienna, e non capisco come la gente osi mischiarsi fra loro con tanta impudenza. d’Annunzio veramente non ha chiesto che di rivedere uno a uno i sette compagni per baciarli e accarezzarli. Ora c’era un’infinità d’altra gente estranea che si faceva sotto per la voglia d’avere un uguale trattamento. Per conto mio, stringendo la mano a d’Annunzio, non trovai di meglio che queste due povere parole: “buon giorno”. E quando acconsentirono a lasciarlo progredire verso l’hangar ombroso, preceduto dalla torba dei fotografi che gli facevano scattare gli obiettivi sotto il viso, col passo legato in quei grandi calzeroni di lana, in mezzo a tanta festa quella sua marcia parve una Via crucis. Meglio, pareva un aquilotto con l’ali mozze, trastullo dei terrazzani. Era chiaro che si avvicinava per il comandante d’Annunzio il momento della relazione, degli specchietti, delle firme, il momento delle scartoffie. Del resto gli va fatto il merito d’essere un buon comandate anche per l’umiltà con la quale si sobbarca queste avventure.

Non sarà vero quello che i comunicati austriaci ci vorrebbero far credere: essere i viennesi “indignati” per il lancio dei volantini sulla città. Ma, d’altronde, chi va a cercare la verità nei loro comunicati? Non è possibile che i viennesi si siano potuti difendere da un senso di viva ammirazione e di trepido stupore vedendo volare così basse le ali tricolori e dopo un lungo indugio partirsene senza aver fatto altro danno. Altro che indignazione! C’è da scommettere che i dormiglioni si saranno morsi le ditta pel dispetto d’aver perduto uno spettacolo come quello e avranno sgridato le serve che non li avevano svegliati a tempo. Non è chi non veda la stretta parentela espressiva tra gli “indignati” del comunicato e l’ineffabile grido di Ferravilla: “indelicato!”.

E’ che il solo nome di Gabriele d’Annunzio fa schiumare le labbra della casta militare austro – ungarica. La fantasia organizzatrice di questo imbrattacarte comincia veramente a preoccupare.

La sera del volo Gabriellino m’ha raccontato d’aver incontrato un vecchio avvocato, con busta di pelle, che battendogli una mano sulla spalla, gli aveva detto benignamente “Che birichino, papà”.

Indubbiamente un birichino. Eppure, un genio che ha scelto di rendere la sua vita, un’opera d’arte.

Antonio Baldini

A cura di Valentino Quintana