
A pochi giorni dal voto, le grandi aspettative di spettacolarità delle elezioni presidenziali USA si sono fatte rispettare: ora niente è scontato, il finale si sta sempre più caricando di sorprese, e i capovolgimenti sono dietro l’angolo. Dai nuovi sondaggi alla riapertura dello scandalo delle email di Hillary Clinton, la settimana che porta all’8 novembre si rivelerà probabilmente per entrambi i candidati la più irta via crucis di questa lunga e inusuale campagna elettorale, mentre l’incertezza sembra riaffiorare anche nel mondo dei media, quasi totalmente reso convinto di una vittoria democratica.
La prima tegola a movimentare questa ultima settimana, in verità, non è una novità assoluta: l’FBI ha deciso, a soli 11 giorni dal voto, di riaprire le indagini sul cosiddetto “emailgate”, ovvero l’utilizzo, da parte di Hillary Clinton quando era Segretario di Stato, di email e server privati per comunicazioni di stretta importanza (con la possibilità che vi fosse materiale riservato).
Le email che stanno analizzando gli agenti statunitense sono circa 650.000, rivenute nel portatile di Anthony Weiner (ex membro della Camera per lo Stato Federale di New York), anche se potrebbero essercene ancora di più: un’indagine che non si concluderà affatto prima delle elezioni, ma durerà ancora delle settimane. Il «passato che ritorna», si sarebbe detto, anche se più probabilmente era la doverosa prosecuzione di uno scandalo che non si è mai concluso in maniera definitiva, sommerso da un babilonico guazzabuglio di materiale che richiede analisi estremamente minute.
Dopo questa decisione dell’FBI, il mondo clintoniano si è sollevato in cori di indignazione verso la decisione, da parte del maggiore ente della polizia federale, di riaprire un’indagine su un episodio arcinoto (eppure mai pienamente compreso). Il leader dei democratici al Senato Harry Reid ha dato il via ad una campagna che mira a incriminare l’FBI per le indagini che sta svolgendo: è “un’azione di parte” quella di indagare su un candidato alla vigilia del voto, che secondo lui viola l’Hatch Act, ovvero rende schierata/parziale la polizia statunitense.
Anche John Podesta, presidente della campagna elettorale di Hillary Clinton e già coinvolto nel furto di email da parte di Wikileaks, ha sconfessato come “senza precedenti” questa decisione, anche perché rischia di ridare speranza a Donald Trump.
Anche altri personaggi della politica statunitense sono intervenuti in coro contro l’FBI, che forse dovrebbe “rimandare” le indagini su un grave caso di violazione dei server per non “favorire” il candidato del Partito Repubblicano: tra i più eminenti anche l’ex ministro della giustizia democratico Eric Holder, che, in una lettera firmata anche da altri procurati, ha criticato aspramente l’operato del capo dell’FBI James Comey, dubitando della pertinenza dell’inchiesta. Ma è stata la stessa candidata democratica, in un comizio a lamentare un misto di indignazione, timore e sospetto: “Questo [la riapertura delle indagini, ndr] non è solamente strano, ma anche senza precedenti e profondamente preoccupante”.
La verità è che questa nuova apertura dell’inchiesta potrà dare dei responsi solo dopo le elezioni, considerando la mole di email da scandagliare: un suo attacco, dunque, non può assolutamente che essere contro un verdetto che entro l’8 novembre non arriverà mai; è un attacco totalmente pretestuoso, perché mostra il timore latente che ciò rischi di rovinare l’immagine di Hillary Clinton e favorire il suo sfidante.
Anche se si tratterebbe di “rovinarla” con degli errori non da poco che lei stessa ha commesso. Non si ha ancora la percezione di quanto questo fatto possa mutare gli equilibri, ma i mutamenti nei sondaggi (forse non causati unicamente da questa vicenda) indicano che tutto ciò ha scosso (per l’ennesima volta) un elettorato che sembrava già “in scia”.
Nonostante la risalita del tycoon (che analizzeremo in seguito), un sondaggio asserisce che il 63% dell’elettorato non cambierà voto in conseguenza alle nuove indagini dell’FBI: più che una “prova di maturità” dell’elettorato statunitense, è una dimostrazione ulteriore dell’attaccamento-identificazione degli elettori nei confronti dei candidati. A stupire, semmai, è quel 37% che in teoria ha ancora “capacità di cambiare voto” in seguito all’apertura di nuove indagini che giungeranno ad una conclusione solo dopo che sarà eletto il nuovo Presidente degli Stati Uniti (anche Abc/Washington Post ha rilevato che il 34% degli elettori si ritiene meno incline a votare Hillary Clinton dopo questa nuova indagine).
Un’altra sorpresa (ma forse è sbagliato definirla “sorpresa”, perché era perfettamente prevedibile) è il grande ritorno di Donald Trump nelle proiezioni di voto. Pur prendendo con le pinze i sondaggi e la loro indubbia fallibilità, il fatto che essi mostrino una decisa riduzione del gap tra i due candidati (da un 5-7% di solo pochi giorni fa, al 2-3% fino al vantaggio di Trump) è sintomo che gli equilibri sono in fase di mutamento e che la storia dell’8 novembre è tutto fuorché già scritta.
A dire la verità, Donald Trump ci aveva abituato ai ribaltoni: perfino nei momenti più bui, quando alcuni stimavano un divario del 10-12%, quando era travolto da scandali ad ampissima risonanza mediatica e perfino i suoi più stretti collaboratori erano disposti a sacrificarlo, il tycoon era riuscito inaspettatamente a tornare in auge ribaltando i pronostici per chi lo dava vicino alla catastrofe, se non addirittura alla ritirata dalla corsa.
Molti sondaggi danno alla Clinton ancora un vantaggio di 1-2 punti percentuali, che è comunque un calo, mentre, ad esempio, USC/Los Angeles Times, dal 21 al 27 ottobre, dà Trump in vantaggio col 2%. Altri sondaggi rilevano una situazione di sostanziale parità nelle decisioni di voto, che è abbastanza fluida da fornire un risultato imprevedibile.
Sarà dunque la vittoria in alcuni Stati federali piuttosto che in altri ad essere determinante, non le percentuali. Ma forse la maggior fonte di “imprevedibilità” emersa in questi giorni è il vantaggio abbastanza consolidato che il New York Times (giornale piuttosto solidale con Hillary Clinton) conferisce a Trump in Florida: +4%, 46% contro il 42%.
Come avevamo detto in passato, si tratta di uno swing state, uno “stato in bilico” storicamente oscillante tra i due maggiori partiti. Ma ha una particolarità: è uno degli “stati in bilico” che porta all’elezione del più alto numero di grandi elettori (29), una cifra assai consistente, che supera tranquillamente la somma di varie vittorie in altri “stati in bilico”. Tuttavia, come già abbiamo sostenuto parecchie volte, la “sensazione di vittoria” che questa scenica campagna elettorale può dare, grazie ai sondaggi o ai colpi di scena, ha quasi sempre un che di effimero, se non di camaleontico. E manca ancora più di una settimana!
Mentre i due candidati non si risparmiano colpi, e soprattutto comizi sul suolo dei principali Stati che danno adito a speranze di “ribaltoni”, si sta assistendo ad un altro fenomeno che ha caratterizzato questa campagna elettorale: l’aumento vertiginoso del ricorso ai fondi a disposizione dei due board elettorali.
Fondi che ora servono come il pane, perché è tempo che essi vengano canalizzati nello sprint finale. Ma le condizioni di partenza sono assai diverse: a quanto è stato rilevato, Hillary Clinton ha raccolto ben 53 milioni di dollari nei primi 19 giorni di ottobre (anche grazie a Dustin Moskovitz, co-fondatore di Facebook e importante imprenditore della Silicon Valley, che ha donato 35 milioni affinché Trump non vincesse), e può far fronte ad una spesa media di 2,8 milioni al giorno.
Una disponibilità di fondi davvero grandiosa, che conta appoggi tanto nel mondo della finanza, della Borsa, di Wall Street, quanto nel mondo dell’industria (Silicon Valley), quanto in quello del cinema e delle celebrità (Steven Spielberg le ha donato 1 milione di dollari), e quella addirittura di governi stranieri (da quello saudita a quello ucraino, anche se in minor misura).
Donald Trump, invece, al 20 ottobre ha raccimolato solo 16 milioni, ed il Partito Repubblicano gli ha fornito 0 dollari. Una campagna principalmente autofinanziata e basata su piccole donazioni, che tuttavia non può competere contro lo strapotere finanziario della rivale, ma che non per questo ha dimostrato di essere meno valido.
Come ha reso pubblico Bloomberg, al 27 ottobre, i fondi giunti alle rispettive campagne elettorali in assoluto sono di 1 miliardo e 68 milioni per Hillary Clinton (con una spesa di 897 milioni) e di 512 milioni per Donald Trump (con una spesa di 429 milioni).
Una forbice forse mai così ampia nel panorama elettorale statunitense: ma quanto essa porti in assoluto alla creazione di consenso e di voti, questo ci toccherà constatarlo soltanto l’8 novembre.
Leonardo Olivetti