
È tornato in auge con la proposta della CGIL l’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori. L’articolo, che tutelava i licenziamenti nel mondo del lavoro dipendente è diventato famoso soprattutto nel nuovo millennio quando si è cominciato ad introdurre il concetto di flessibilità per il mercato del lavoro e sue eventuali riforme.
L’articolo prevede che nelle aziende con più di 15 dipendenti i lavoratori licenziati senza giusta causa vadano reintegrati e risarciti per il danno. Questo, se costituisce una sicurezza per loro contro possibili abusi dirigenziali, per i proprietari è invece una difficoltà nella agevole organizzazione della produzione. Per cui soprattutto i governi di centrodestra, ma anche quelli di centrosinistra, in particolar modo dall’epoca di Tony Blair in Inghilterra, hanno cercato di limitare l’efficacia di questa norma per consentire un supposto maggiore sviluppo economico, nella convinzione che il mercato avrebbe riassorbito i lavoratori estromessi.
In questi mesi due sentenze, una della Corte di Cassazione, l’altra della Corte Costituzionale, hanno fatto sorgere polemiche tra i sostenitori della cosiddetta “tutela reale piena” fornita dall’art. 18. La Corte di Cassazione con sentenza n. 25201 del 7 dicembre 2016 ha affermato un ampliamento di regime: il licenziamento legittimo per una situazione economica particolarmente sfavorevole, possibile precedentemente quindi come soluzione straordinaria, viene esteso adesso alla funzione di aumento del profitto, quindi come modo ordinario di gestione.
A riguardo vengono di solito concepite due posizioni egualmente meritevoli, in buona fede: da un lato abbiamo il lavoratore, che non può essere in una posizione di precarietà perenne, sotto l’arbitrio di un datore di lavoro che può licenziarlo in ogni momento per qualsiasi motivo; d’altro canto vi è la legittima posizione dell’imprenditore onesto che è costretto a tenersi dei lavoratori pigri, rassicurati dall’impossibilità di essere mandati via dal proprio posto di lavoro. In concreto però se si può valutare la produttività di un lavoratore, diventa ben più difficile immaginare un datore di lavoro che dimostra il licenziamento di un dipendente per la supposta maggiore produttività di un altro.
L’ultimo tentativo di riforma in materia viene invece dal governo Renzi ed è noto come Jobs Act: prevede appunto, tra le altre novità, una maggior flessibilità che ha causato forti polemiche nelle opposizioni politiche a destra e sinistra.
Il segretario generale della CGIL, Susanna Camusso, aveva proposto un referendum proprio con lo scopo di arrestare questa ulteriore prosecuzione politica di stampo liberista. Poiché in Italia il referendum per le leggi ordinarie è previsto solo in forma abrogativa, per cui è noto che bisogna votare Sì per dire No – a differenza del famoso referendum del 4 dicembre 2016, che era costituzionale – le proposte referendarie devono essere sempre poste in modo da abrogare semplicemente le leggi; sarebbe perciò bastato semplicemente sottoporre l’intero testo, o parti di esso.
Il quesito posto sotto il controllo del giudice costituzionale, invece, presentava un’ulteriore domanda di estensione dei diritti dalle aziende fino a 15 dipendenti a quelle con almeno 5, da cui sarebbe risultata un’estensione degli effetti normativi e quindi un referendum sostanzialmente propositivo. Di tre quesiti posti al vaglio di ammissibilità quindi, solo due, riguardanti i voucher e la responsabilità in solido appaltante, sono stati ammessi.
Un errore diremmo quasi banale, che lascia adito a sospetti di una volontà da parte dei rappresentanti delle parti sociali che hanno proposto il referendum di ottenere una strumentalizzazione politica della decisione della Corte Costituzionale. Situazione questa molto analoga a quella del referendum proposto dalla Lega Nord sulla cosiddetta riforma Fornero, che avendo ad oggetto la tassazione, venne dichiarato inammissibile per contrasto con l’art. 75 della Costituzione. In quel caso Salvini utilizzò la sentenza di inammissibilità per la sua battaglia ideologica sostenendo che ai cittadini italiani viene vietato di influire sulle decisioni politiche.
Saranno eventualmente le forze politiche desiderose di affrontare queste riforme, quando elette in Parlamento, ad invertire la rotta, verso una maggiore stabilità del lavoro attraverso la tutela reale dei lavoratori. L’impressione tuttavia è che manchi invece la volontà di perseguire con determinazione i propri obiettivi, che ci sia paura a combattere o riformare il sistema, a doversi assumere delle responsabilità.
Intanto che queste forze di opposizione tentennano, il fronte opposto però, anche in maniera irresponsabile a sua volta, agisce e riforma progressivamente quello che è diventato il proprio sistema, dei quali gli effetti nefasti sono sotto gli occhi di tutti.