
Pochi metri separano la statua di Bill Clinton a Pristina, Kosovo, dal negozio di abbigliamento femminile “Hillary”, una boutique di alta moda che dal 2002 omaggia, come raccontava il suo gestore, il gusto per l’eleganza della allora First Lady americana. Pochi metri, nel cuore dell’Europa balcanica, per rendere l’intreccio fra presidenzialismo e processione dinastica a Washington: dai Kennedy ai Bush ai Clinton, la saga continua anche nel 2016. A pochi mesi dalle grandi elezioni americane, però, mentre Bill si guadagna i galloni applaudendo ai comizi della moglie, è Hillary che occupa la scena, o meglio, che continua a occuparla fin dal suo accesso privilegiato alle stanze della Casa Bianca nei primi anni ’90. Donna dal temperamento forte e dalle grandi ambizioni, Hillary Clinton ha una storia di continue relazioni e interessi con i principali centri di potere dell’establishment statunitense, e raccontare questa storia significa isolare i nodi che legano il complesso militare-industriale-accademico USA al mondo finanziario, alla geopolitica e alle istituzioni americane, il che richiede un talento per la sintesi tra il dettaglio e la necessità di una visione complessiva. E’ un dono che Diana Johnstone, autrice del libro “Hillary Clinton. Regina del Caos” per Zambon Editore, dimostra di avere in abbondanza. La Johnstone è un’americana d’Europa che da decenni studia la politica atlantista sulle due sponde dell’oceano, avendo conoscenza sia degli Stati Uniti che del continente europeo, dove ha a lungo studiato e lavorato.
Questo studio, che è pure un racconto dello splendore unipolare di Washington a partire dalla caduta dell’Unione Sovietica, individua nel personaggio Hillary Clinton “la continuità nel cambiamento”, l’abilità delle élites al potere di riprodursi sulla base di sempre nuove propagande e il mutamento di gestione del Warfare State, una megamacchina che coniuga l’eccezionalismo americano alla consapevolezza di occupare un ruolo inedito della storia umana, quello di essere la sola superpotenza globale, in chiave molto più aggressiva rispetto alla versione novecentesca, e quindi oltremodo pericolosa. Di questo approccio, la Clinton è un’adepta volontaria, una devota discepola.
Per quanto candidata democratica, questa “figlia del baby boom”, formatasi nel tronfio immaginario hoollywodiano, si situa oltre la falsa opposizione elettorale good cop/bad cop (democratici/repubblicani). Filoisraeliana senza appello, filoislamica di facciata (si vocifera di una sincera (?) fascinazione per l’Islam ai tempi in cui supportava i musulmani bosniaci contro i serbi), capace di votare per la guerra in Iraq e poi farne pubblica ammenda, incentivare il ritiro delle truppe dal Medio Oriente ma in poco tempo elogiarne il loro rafforzamento, di promettere la riduzione del potere delle corporations a Wall Street e di ottenere dalle stesse enormi finanziamenti, la Clinton è di certo un’abile manipolatrice, ma questo in sé non basterebbe a farne un personaggio così rilevante: Hillary è soprattutto una valida interprete di quei meccanismi che ne facilitano la carriera, in particolare di quelli ideologici, al di là delle dicotomie tradizionali. Come ci suggerisce la Johnstone, Hillary Clinton subì alcune forti delusioni quando cercò di utilizzare la politica interna come rampa di lancio, imbarcandosi nel progetto di un’assicurazione sanitaria pubblica. Il suo piano fu un fiasco, dovuto alla ancora scarsa comprensione di come funziona il capitale finanziario sul fronte interno, ma quello spazio che lì era chiuso si aprì sull’orizzonte dei diritti umani e della politica estera, e sono proprio questi due le opzioni su cui Hillary ha puntato di più, accreditandosi come paladina delle cause immigrazioniste, LGBT e soprattutto della questione femminile, e come promotrice dell’egemonia americana nel mondo, eclissando il poco incisivo Obama ed entrando in concorrenza coi neoconservatori sul loro stesso terreno: un binomio ben riuscito, per cui essere democratici sul piano culturale non contraddice l’essere repubblicani sul piano geostrategico. In questo senso, “l’esportazione dei diritti umani” a colpi di bombe non è propaganda, ma un programma che vuole esattamente quello che le parole esprimono. In queste due vesti, la Clinton ha costruito il suo personaggio mediatico nel corso degli anni, uno specchietto per le lobby in vista della maratone presidenziali, e non sono stati ruoli di facciata.
Il testo illustra ampiamente il ruolo che, da Segretaria di Stato, la Clinton ha avuto nella supervisione del golpe in Honduras. Con la stessa decisione con cui ha contribuito alla deflagrazione della Libia (non si dimentichi l’espressione esaltata con cui, in un famoso video che da anni circola in rete, accolse la notizia della morte di Gheddafi), mantenendo una linea russofobica così manifesta che riporta molto più a Reagan che ai Bush, e anche questo raffronto non è casuale. Quando è stato possibile, poi, ed è tra gli aspetti più interessanti che la Johnstone analizza, il suo sostegno all’emancipazione femminile si è fuso con il suo ruolo aggressivo in politica estera. La Clinton stessa non è che la più celebre di una lunga serie di figure di donne (Victoria Nuland, Maledeline Albright (amica e collega universitaria di Hillary, Samantha Power, Susan Rice, Condoleeza Rice, Valerie Jarrett), che hanno in qualche modo personificato il volto umanitario del potere, mitigando la portata dell’imperialismo statunitense dietro voci meno arroganti e toni melliflui, più telegenici e accattivanti. Il solo presentarsi come prima donna candidata alla Presidenza (dopo il primo presidente di colore), con ottime prospettive di vittoria, non è forse il segno maggiore di questa finzione propagandistica? Anche solo aver messo in luce la cooptazione di questo mito emancipatorio per il fine, dichiaratamente proclamato in varie salse, di un’egemonia globale, vale la lettura di questo ottimo e ben documentato saggio. Ma riuscire a leggere in profondità le origini e le intenzioni, il dietro le quinte della possibile vincitrice delle Elezioni 2016, e al tempo stesso decifrare le sovrastrutture del ‘male americano’, è sicuramente più importante.
Federico Pastore