24 giugno: in questo giorno la storica Casa automobilistica italiana Alfa Romeo celebra l’anniversario della propria fondazione, e quello di ieri è stato nientemeno che il centodecimo: un traguardo indubbiamente ragguardevole. Ma, a volerla dire tutta, la storia di Alfa Romeo è molto più antica di quanto si possa credere.
Già nel 1906, infatti, a Napoli era stata fondata la Società Italiana Automobili Darracq, filiale italiana dell’allora celebre Casa automobilistica francese Darracq. Pierre Alexandre Darracq, uno dei padri dell’automobile e non soltanto a livello europeo, in quegli anni stava espandendo rapidamente la propria azienda con l’apertura di nuove filiali non soltanto in Italia, ma anche in Inghilterra e Spagna. Tuttavia, per problemi organizzativi e d’approvigionamento dei materiali provenienti ancora in larga parte dalla Francia, lo stabilimento della Darracq italiana fu rapidamente spostato a Milano, al Portello; quindi, col sopraggiungere della crisi economica del 1907, che aveva costretto alla chiusura anche molti nostri piccoli e medi costruttori, anche lo stesso Darracq si scoraggiò decidendo di porre in liquidazione la filiale italiana. A quel punto subentrarono alcuni imprenditori lombardi, che riaprirono lo stabilimento del Portello cambiando la ragione sociale dell’ormai ex Darracq in ALFA (Anonima Lombarda Fabbrica Automobili): ecco perché tale atto, che data proprio al 24 giugno 1910, viene considerato come data di nascita ufficiale dell’odierna Alfa Romeo.
La nuova proprietà s’impegnò per garantire un successo alla nuova Casa, tant’è che già nel corso del 1910 vide la luce il primo, nuovo modello, la 24 HP. Il successo non tardò ad arrivare, ma le dimensioni dell’Azienda continuavano pur sempre a restare piuttosto modeste, e lo scoppio della Prima Guerra Mondiale rimise nuovamente tutto in discussione. Trovandosi priva delle adeguate risorse per riconvertirsi alla produzione bellica, mentre il mercato delle auto ad uso civile nuovamente si congelava, l’ALFA passò nelle mani della Banca Italiana di Sconto, allora terzo gruppo creditizio nazionale, che individuò nell’Ingegner Nicola Romeo il nuovo acquirente ideale, in grado di rilanciarla.
Anche quella di Nicola Romeo è “una storia nella storia”, soprattutto perché si tratta di una figura al tempo stesso tanto leggendaria fra gli appassionati del Marchio Alfa Romeo così come dell’automobilismo storico in generale quanto invece poco conosciuta e valorizzata da tutti gli altri. Era nato a Sant’Antimo, in provincia di Napoli, il 28 aprile 1876. I suoi genitori, Maurizio Romeo e Consiglia Taglialatela, erano lucani, originari di Montalbano Jonico, in provincia di Matera. Nato e cresciuto in gravi ristrettezze economiche, per compire gli studi tecnici si muoveva a piedi da Sant’Antimo a Napoli ogni giorno, mantenendosi con ripetizioni a qualche altro studente. Nel 1899 si laureò in Ingegneria Civile presso la Scuola di Applicazione a Napoli (l’odierna Facoltà d’Ingegneria dell’Università Federico II) e a 23 anni andò ad approfondire i suoi studi in Belgio, e successivamente in Francia e Germania. Tornato in Italia, per caso, in un viaggio in treno, conobbe un dirigente della Robert Blackwell & Co., società inglese attiva in ambito ferroviario e d’impiantistica elettrica, che proprio in quel periodo puntava ad aprire una propria filiale in Italia. Nicola Romeo diresse la neonata società per alcuni anni, finché nel 1906 non decise di mettersi in proprio dando vita insieme ad altri investitori alla società Ing. Nicola Romeo & Co., importatrice per l’Italia di materiali rotabili inglesi e compressori statunitensi. A questa prima azienda, nel 1911, ne seguì un’altra, per la produzione di macchinari per le attività estrattive e che successivamente si specializzò in materiali ferroviari e in locomotive con motori a combustione interna, prodotte su licenza, decisamente innovative per l’epoca.
Fu proprio in quel periodo che l’Ingegner Nicola Romeo mise piede all’ALFA, rendendola innanzitutto in grado di riconvertirsi alle sopraggiunte esigenze di produzione bellica. Il 3 febbraio 1918 avvenne poi il definitivo cambio di ragione sociale che portò l’azienda a chiamarsi Alfa Romeo, non senza una relativa battaglia legale coi vecchi proprietari proprio in merito ai diritti sul nome ALFA. A guerra conclusa, la produzione automobilistica prebellica potè riprendere, ma le condizioni del mercato automobilistico dei primi anni del Dopoguerra non erano certo delle più incoraggianti. La nuova 20-30 HP, la prima a fregiarsi del marchio Alfa Romeo, ebbe anche per queste ragioni uno scarso successo, che s’assommava ai problemi di molte altre grandi aziende del periodo, in difficoltà con la riconversione bellica ed avvitate in una spirale di crescente indebitamento con le banche. Sotto l’egida di Nicola Romeo, inoltre, l’azienda era fortemente cresciuta nel periodo bellico, acquisendo il controllo d’importanti realtà produttive italiane del panorama ferroviario, come le Costruzioni Meccaniche di Saronno, le Officine Meccaniche Tabanelli di Roma e le Officine Ferroviarie Meridionali di Napoli, e si trovava ora decisamente sovradimensionata rispetto alle possibilità del mercato.
Per uscire dall’impasse, Nicola Romeo puntò sulla diversificazione e sull’innovazione: in ambito ferroviario, con la costruzione di locomotive elettriche e l’elettrificazione delle strade ferrate; in campo automobilistico, con l’uso dello sport come strumento di promozione dell’immagine e della qualità delle vetture Alfa Romeo, per la cui progettazione venne chiamato un altro nome di tutto rispetto come Vittorio Jano. Nel 1923, con pilota Ugo Sivocci, arrivò la prima di dieci vittorie nella prestigiosa Targa Florio. Inoltre, nel 1926 nacque il sito produttivo di Pomigliano d’Arco, in provincia di Napoli, dedicato alle costruzioni aeronautiche e di motori per aerei: si trattava in fondo dell’affermazione dell’Alfa Romeo Avio, parallela a quella della sorella Alfa Romeo automobilistica.
Sempre in quegli anni, tuttavia, col fallimento della Banca Italiana di Sconto, la situazione finanziaria dell’Alfa Romeo aveva portato comunque l’Ingegner Nicola Romeo ad una progressiva estromissione da parte degli altri soci, in particolare i nuovi investitori della Banca Nazionale di Credito e della Banca d’Italia. Però, con la nascita del regime fascista, Benito Mussolini, proprietario ed appassionato di vetture Alfa Romeo, e che riteneva che i successi della Casa dessero lustro anche alla Nazione, fece varie pressioni perché essa fosse salvata da una possibile chiusura, anche con interventi dello Stato. Più tardi, con la Grande Crisi del 1929, l’Alfa Romeo venne ufficialmente statalizzata entrando a far parte della neonata IRI. Su impulso dello Stato, l’Alfa Romeo tornò in breve a crescere, dedicandosi non soltanto alla produzione di vetture sportive sotto la supervisione di Vittorio Jano e del nuovo dirigente Ugo Gobbato, ma anche di camion e di motori aeronautici.
Il successo delle vetture Alfa Romeo nelle competizioni rafforzò la fama della Casa, e rese i suoi autotelai ambiti da molti carrozzieri di grido, che vi crearono modelli con un’eleganza ed una sportività non certo minore a quella dei modelli di serie. Tra i piloti che in quegli anni si fecero le ossa e la fama correndo e vincendo con le vetture Alfa Romeo, figurava anche un certo Enzo Ferrari, che avrebbe poi fondato la propria scuderia utilizzando, dal 1933, le macchine ed il materiale cedutigli nel frattempo da Ugo Gobbato. E poi c’era anche un certo Tazio Nuvolari, “il Nivola”, che corse sia con le Alfa Romeo ufficiali che con quelle della Scuderia Ferrari. Nacque una grande amicizia con Enzo, così come con D’Annunzio, anche lui un grande amante delle Alfa Romeo: la sua, la 8C 2300, era “carrozzata speciale”, nota col nome di “Soffio di Satana”, e persino la tartaruga simbolo e portafortuna del Nivola, gliel’aveva donata lui, al Vittoriale, con la dedica “All’uomo più veloce, l’animale più lento”. Nel 1935, con l’Alfa Romeo Bimotore voluta da Enzo Ferrari, sull’autostrada Firenze-Mare Tazio Nuvolari superò i record di 320 km/h, in condizioni di vento laterale non proprio dei più favorevoli. Quanto a Mussolini, che come già avevamo detto era un grande estimatore dell’Alfa Romeo, nel 1939 usò proprio una cabriolet istituzionale della Casa milanese per visitare i nuovi stabilimenti Fiat di Mirafiori, per fare un “dispettuccio” al Senatore Agnelli a cui oltretutto in precedenza aveva pure intimato d’aver più rispetto dei propri operai.
La Seconda Guerra Mondiale rimise nuovamente tutto in discussione, e a partire dal 1943 Pomigliano e dal 1944 il Portello vennero ripetutamente bombardati. Tuttavia, conclusasi la guerra, la produzione ripartì, e nel 1950 arrivò la prima Alfa Romeo nuova del Dopoguerra, la 1900 (“la berlina che vince le corse”, diceva la pubblicità del tempo), pietra miliare nella storia della Casa anche perché fu la prima ad essere realizzata mediante la catena di montaggio. Nel 1955, poi, arrivò anche la Giulietta, la piccola di Casa, di 1300 cc (ma a quel tempo era pur sempre una cilindrata da persone benestanti), e fu un altro grande successo. Con questi due modelli la Casa vide crescere massicciamente i propri volumi di vendita, insieme alla sua fama all’estero. Parallelamente, si guadagnavano un loro dignitoso spazio di mercato anche i veicoli commerciali come il Romeo, furgone disponibile sia col bialbero 1300 della Giulietta sia con un originale motore a due tempi diesel sovralimentato, caso più unico che raro nel settore.
In quegli anni, ad animare la tecnica e la dirigenza dell’Alfa Romeo, erano due nomi di grande rilievo come l’Ing. Orazio Satta Puliga e Giuseppe Eugenio Luraghi, che a breve ne sarebbe diventato lo storico presidente. Erano anni dove il mercato chiedeva di tutto, e così Alfa Romeo lanciò anche una propria linea di cucine a gas, dato che le bombole stavano cominciando a far capolino nelle case degli italiani rimpiazzando almeno in città la legna e il carbone. Nel frattempo, però, non mancavano nuove conquiste fra le “star”: tra queste, Totò, innamoratissimo anche lui delle Alfa Romeo, o ancora Enrico Mattei, felice possessore di una Giulietta berlina, o anni dopo ancora Pier Paolo Pasolini, la cui 2000 GT Veloce sarà anche “testimone” del suo drammatico omicidio-esecuzione.
Negli Anni Sessanta l’Alfa Romeo tenne a battesimo il nuovo grande stabilimento milanese di Arese e sfornò la Giulia, erede della Giulietta, dalla cui fortunata versione berlina (“l’auto disegnata dal vento”, diceva la sua pubblicità) derivarono versioni sportive ancor più desiderate come la coupé GT o la spider Duetto, che conquistò gli americani col film “Il Laureato”. Sempre dalla Giulia derivarono due berline di maggiori dimensioni, ugualmente ben ricordate dagli alfisti, come la 1750 e la 2000. Il culmine si ebbe, al termine di quel decennio, con la 33 Stradale, una fuoriserie a cui seguì, al principio degli Anni Settanta, la supersportiva Montréal. Il nuovo decennio, che in Italia vide il divampare della tensione dentro e fuori le piazze, portò alla nascita dell’Alfetta, l’innovativa berlina che adottava per prima nella storia della Casa lo schema Transaxle con ponte De Dion, adottato poi sulla Nuova Giulietta, ovvero l’erede della Giulia. Erano gli anni dove le Alfa Romeo, ormai auto di Polizia e Carabinieri per antonomasia, comparivano anche nei celebri “poliziotteschi”, i polizieschi all’italiana a suon di rapine, sparatorie ed inseguimenti: difficile immaginarsi questi film senza di loro, e anche senza i volti di certi attori del tempo.
Invece l’Alfasud, prodotta a Pomigliano d’Arco, vedeva per la prima volta entrare in Casa Alfa Romeo la trazione anteriore abbinata ad un motore boxer. Loro padrini erano, stavolta, Rudolf Hruska e Cesare Bossaglia, altri grandi tecnici. A proposito dell’Alfasud, s’è spesso detto che avesse gravi difetti, nell’assemblaggio come nella protezione dalla corrosione, a causa della manodopera locale, ma chiaramente si tratta di un luogo comune a dir poco riprovevole. Infatti, la produzione dei motori aeronautici nello stabilimento accanto, sempre Alfa Romeo, non presentava nessun difetto; e anche le vetture che vi erano state prodotte negli anni precedenti non avevano problemi. Negli Anni Sessanta, infatti, in base ad un accordo con Renault, Alfa Romeo ne costruiva le utilitarie Dauphine e R4, oltre al furgoncino Estafette, per il mercato italiano: anzi, i modelli montati in Italia erano persino migliori come qualità rispetto a quelli francesi, oltre a presentare dei perfezionamenti tecnici volti a renderli più attraenti per il cliente italiano.
Piuttosto, ad incidere sulle sorti dell’Alfasud fu l’aspetto sempre più clientelare che colpì la gestione statale in quegli anni, in un clima di forti pressioni sindacali e tensioni politiche nazionali, a tacer poi dei primi problemi economici legati anche (ma non solo) ai due shock petroliferi. Fu un problema che spesso colpì “a morte” anche molte altre grandi imprese italiane, non solo pubbliche ma anche private. Le cose si notarono coi grossi ritardi produttivi che segnarono la grande berlina Alfa 6, “nata vecchia” malgrado le tante qualità, e che per questo non incontrò il successo meritato; tuttavia, fu con lei che nacque anche un motore destinato a fare la storia dell’Alfa Romeo quanto il bialbero ed il boxer, ovvero il V6 progettato dall’Ing. Giuseppe Busso, un motore che non a caso gli alfisti chiamano affettuosamente proprio “Busso” in onore anche del suo geniale progettista.
Tuttavia non mancarono segni di voler dare un colpo di reni: la 33, che nel 1983 sostituì l’Alfasud, fu un successo che scendeva da linee per l’epoca fra le più avanzate in Europa, e lo stesso si potè dire per la 75, che raccolse il testimone della Nuova Giulietta. Meno fortuna, invece, ebbe la 90, vettura di transizione fra l’Alfetta e la 164, quest’ultima nata ormai in epoca Fiat e che rimpiazzava anche la poco fortunata 6. Fu un “fiasco”, commercialmente parlando, l’Arna, che nasceva da una partnership con la giapponese Nissan (l’acronimo, infatti, significava Alfa Romeo Nissan Automobili), che negli auspici avrebbe dovuto dar vita ad una grande joint-venture, ma che nei fatti s’arenò insieme alle vendite del modello, in pratica una Nissan Pulsar/Cherry dotata del motore boxer Alfa Romeo.
Come e perché la Fiat dell’Avvocato Agnelli mise le mani su Alfa Romeo è storia nota, anche se tuttora in molti hanno in merito diverse chiavi di lettura; e, chissà, non è nemmeno detto che l’una sia incompatibile con l’altra. Certamente le pressioni di Torino sulla politica italiana pesarono, anche perché dal Lingotto si ripeteva, come già era avvenuto ai tempi dell’acquisizione di Lancia nel 1968, “Non passi lo straniero!”. Infatti, in quel periodo, erano in tanti a manifestare un certo interesse per Alfa Romeo: in primo luogo la Ford, che si dichiarava pronta a qualsiasi condizione o quasi pur d’averla, e pure la Chrysler di Lee Iacocca, le cui proposte però erano parse già meno “ricevibili” da parte della nostra politica. La gestione Fiat, com’è noto, è stata all’impronta della standardizzazione e della generalizzazione del prodotto, a causa di una stringente politica di sinergie che hanno progressivamente condotto all’abbandono della trazione posteriore sui modelli più grandi, delle storiche motorizzazioni della Casa, ecc, esattamente come del resto era già avvenuto alla Lancia. E questo, col senno di poi, non è stato del tutto un bene, anche se bisognava pur sempre “far tornare i conti” (ma non sempre sono tornati).
Oggi Alfa Romeo è parte di una grande galassia, FCA, che ha riunito insieme i vecchi gruppi Chrysler e Fiat, e si ritrova a convivere coi numerosi marchi del suo “portafoglio”. All’orizzonte, anche se non è ancora del tutto sicura, c’è anche una fusione con PSA, che porterebbe a questo punto Alfa Romeo a convivere con una pluralità di nomi che spaziano da Fiat a Lancia, da Chrysler a Dodge, da Jeep ad Opel, da Peugeot a Citroen, e forse ne manca ancora qualcun altro al nostro elenco… Tuttavia, all’interno di questa galassia, Alfa Romeo mantiene un’unicità che la distingue e che le dà un valore aggiunto su cui è bene cominciare a non chiudere più gli occhi: proprio perché, accanto a tanti nomi generalisti (sebbene Lancia, Citroen, Jeep, abbiano indubbiamente una “personalità di spicco” rispetto agli altri, soprattutto come storia), chi ha “carattere” non passa mai inosservato.