Di Elias G.Fiore.
Tra i molti paragoni inappropriati e appropriati fatti riguardo ai Beatles, forse quello che potrebbe colpire di più è quello con Stanley Kubrick. Di entrambi è stato detto: “Hanno fatto tutto”. Dietro questo “tutto” sono celate tutte le incarnazioni musicali del quartetto: canzoncine melodiche, rock’n’ roll e rhythm and blues, soul (mutuato dalla Tamla motown), folk (dovuto principalmente all’incontro con Bob Dylan), filastrocche infantili, contaminazioni classiche, musica etnica indiana, psichedelica, rock duro (sono in molti a vedere in “Helter Skelter” sul White Album la prima canzone punk della storia), sperimentazione (la spiazzante “Revolution Number 9”), eccetera eccetera. Già solo questo basterebbe a farci capire con chi abbiamo a che fare ma oltre a ciò, va sottolineato un altro fattore: i Beatles non solo hanno fatto tutto ma sono anche stati tutto. Fenomeno commercial, musicale, sociale, estetico e per certi versi anche filosofico e politico. Hanno talmente centrato I bersagli sensibili del loro tempo che I loro risultati sono arrivati sino a noi con una splendida aura di indiscutibilità.
Un concetto chiave per definire la loro grandezza artistica è questo: sono lo specchio perfetto di ciò che erano gli anni sessanta e nonostante ciò, la loro musica non accenna ad invecchiare ed e’ anzi entrata nel pantheon dei valori eterni. Essa influenza ancora oggi musicisti provenienti dalle aree più disparate del rock e del pop, musicisti appartenenti a diverse generazioni, è bene notare. Disse Krist Novoselic ad un intervistatore italiano: «con loro si e’ aperto e chiuso un cerchio». Come a dire che Hanno dato il la a molto di quello che e’ venuto dopo di loro e al tempo stesso sono stati i massimi realizzatori di ciò che oggi e ieri era ed è il pop.
John Lennon all’intervistatore noto come Miles disse: «quando dico che sono primitivo, voglio dire che mi reputo un musicista primitivo solo perché non ho mai studiato la musica. Quindi mi reputerò sempre un primitivo. I primi tempi, ci chiedevano sempre: “tu e Paul non avete mai preso in considerazione l’idea di imparare la musica?” e noi rispondevamo sempre: “no,no, rovinerebbe il nostro stile”. Ecco cosa dicevamo». Va assolutamente chiarito che i due principali autori all’interno del gruppo erano molto diversi l’uno dall’altro: John Lennon è quello più eterodosso, spigoloso, eccentrico, visionario, rivoluzionario e dissacrante. La sua musica poco si cura delle regole dettate dall’eleganza formale; essa è alle volte ossessiva ed aspra, ma sempre espressiva e mai di cattivo gusto. Paul mcCartney invece è l’autore più’ convenzionale, geniale sì, ma entro i limiti imposti dalla tradizione, capace di grandissimi picchi espressivi ma a volte troppo attirato dagli aspetti esteriori della musica, tanto da comporre brani imbarazzanti. Uniti dalla passione per il rock’n’roll americano (Little Richard, Chuck Berry, Fats Domino, Buddy Holly, Smokey Robinson, etc.) avevano in comune un’esperienza dolorosa e cruciale: la perdita della madre in giovanissima età (Paul a 12 anni, John a 18). Va detto senza dubbi che la loro collaborazione fu per lo più una specie di romantica finzione; le cose migliori furono scritte da soli (Vedi “Yesterday” per McCartney e “Strawberry fields forever” per Lennon). Va anche detto che quando collaborarono i risultati furono sempre degni di nota, vedi la splendida “A day in a life”, chiusa di Sgt Pepper. A questi due straordinari autori (per alcuni I più straordinari del rock) va aggiunto un terzo genio della canzone: quello di George Harrison, che influenzato dalla musica indostana sarà creatore di brani storici al pari dei compagni sopra citati. Arrivato più’ tardi di loro, e più’ giovane, scrive meno degli altri e si fa notare soprattutto nel periodo psichedelico quando fonde misticismo e suggestione con grande perizia melodica.
Il ruolo di Ringo Starr nei Beatles è stato spesso sottovalutato: egli fu un buon interprete della volontà artistica di due come Lennon & McCartney, e impiegò la batteria in maniera ottimizzante nella riuscita dei brani (su tutte, Vedi “Tomorrow never knows”). I suoi contributi diretti saranno comunque ironici e poco interessanti, ed è proprio per la sua ironia che viene ricordato con piacere.
Insieme, questi quattro giovani cantautori seppero crescere insieme al loro pubblico cambiando continuamente pelle e tendendo continuamente al miglioramento di se stessi. Nessuno dei loro imitatori è passato alla storia e questa è, forse, la prova definitiva della loro unicità e universalità insieme. E se si considerano gruppi moderni che provengono dalla loro stessa terra e dall’America, appare lampante una realtà dolceamara: molti allievi, nessun genio. E così sia.