Ricorreva ieri il settantunesimo anniversario del bombardamento effettuato dalla 15° Air Force USAAF sul quartiere milanese di Gorla, obiettivo privo di qualsiasi valore militare, tanto che l’effetto più clamoroso dell’incursione venne rappresentato dalla distruzione della scuola elementare “Francesco Crispi”, nella quale perirono 184 bambini e tutti i loro insegnanti. Riguardo tale strage la penna del disegnatore Gino Boccasile avrebbe fornito molte immagini di denuncia alla propaganda della Repubblica Sociale Italiana, ma non si trattò di un’azione premeditata.
Premeditati erano gli spezzonamenti ed i mitragliamenti dei civili nelle campagne e nelle periferie cittadine, come accadde ai bambini che stavano trascorrendo il Lunedì dell’Angelo del 1943 sulle giostre allestite all’esterno della Porta Vecchia di Grosseto, oppure il lancio di penne e giocattoli esplosivi nelle strade, con il deliberato scopo di venire raccolte per poi esplodere in mano. Nel caso di Gorla si trattò di un errore di calcolo: quel 20 ottobre 1943 due precedenti incursioni su Milano avevano devastato gli stabilimenti Isotta Fraschini (461° Bomb Group) e Alfa Romeo (481° Bomb Group), laddove al 451° Bomb Group erano stati assegnati come bersaglio gli impianti Breda a Sesto San Giovanni.
Due ondate successive avrebbero dovuto colpire questa fabbrica di armi, ma la prima incursione, causa un difetto nei meccanismi di sganciamento delle bombe del capo formazione, scaricò in aperta campagna il suo carico, laddove il secondo stormo una volta giunto sulla verticale del capoluogo lombardo invece di virare di 22° a sinistra come indicato nel piano di volo, deviò a destra. Non riuscendo a identificare l’obiettivo dell’incursione, temendo la contraerea ed il possibile arrivo dei caccia italo-tedeschi e non volendo gettare altrove le bombe (già innescate, in maniera tale che mantenerle a bordo avrebbe reso rischioso l’atterraggio), il comandante della formazione decise di scaricare gli ordigni (80 tonnellate) sui sottostanti quartieri di Gorla e di Precotto, contribuendo a quella criminale strategia di bombardamento a tappeto dei civili che i vertici angloamericani avevano deliberato già da tempo. Una di queste bombe penetrò nel vano scale della scuola “Crispi”, per poi esplodere proprio nel rifugio antiaereo che aveva accolto scolari e corpo docente: tre anni dopo il Comune di Milano avrebbe eretto un ossario intitolato ai “Martiri di Gorla” sull’area ove sorgeva l’edificio scolastico.
Analogamente un errore potrebbe essere alla base del bombardamento che il 7 aprile 1944 aveva devastato Treviso: era il Venerdì Santo, sicché i giornali dell’epoca titolarono “La passione di Cristo e di Treviso”. Il capoluogo veneto si trovava certamente lungo una tratta ferroviaria che serviva a trasportare rifornimenti alle truppe italo-tedesche dall’Austria, lo spionaggio alleato aveva notizia di un possibile vertice di gerarchi fascisti e nazionalsocialisti presso l’albergo “Stella d’Oro”, ma circola anche un’altra ipotesi per spiegare la distruzione dell’80% del patrimonio edilizio cittadino (compresi monumenti di gran pregio come il Palazzo dei Trecento) e l’uccisione di un migliaio di trevigiani, tra i quali 123 bambini. Non è mai stata ufficialmente smentita, infatti, la voce che le 159 fortezze volanti partecipanti all’incursione (la contraerea del limitrofo aeroporto ne avrebbe abbattuta solamente una), causa un errore di trascrizione, si fossero dirette su Treviso invece che su Tarvisio, snodo ben più importante della medesima tratta ferroviaria, ma ubicato in provincia di Udine all’intersezione tra Alpi Carniche e Giulie.
Molti dei bombardamenti che sconvolsero l’Italia centrale e settentrionale nel 1944-’45 partivano dal territorio metropolitano sotto controllo dei cosiddetti Alleati, in particolare dall’aeroporto di Castelluccio dei Sauri a Foggia, città che nei mesi a metà del 1943 venne devastata sia per colpire la stazione ferroviaria (dalla quale potevano affluire rifornimenti per la Sicilia che stava per essere invasa) sia l’impianto aeroportuale appunto. Il calvario ebbe inizio a fine maggio, con i suddetti obiettivi sensibili che vennero pesantemente colpiti (quasi 500 vittime), ebbe una recrudescenza a metà luglio (1.300 morti), si esasperò la settimana seguente (il mitragliamento a bassa quota del quartiere circostante la devastata stazione procurò 7.600 vittime), toccò il culmine il mese seguente (oltre 10.000 morti) e si concluse dopo la proclamazione dell’armistizio: all’indomani dell’8 Settembre una ventina di civili si aggiunsero al novero dei caduti ed il 17-18 settembre, con il Re, Badoglio ed il loro seguito oramai sbarcati dalla corvetta “Baionetta” nella non lontana Brindisi, si assistette al gran finale con “solo” 179 vittime.
Il martirio foggiano ebbe il riconoscimento della Medaglia d’oro al valor civile nel 1959 e della Medaglia d’oro al valor militare nel 2006, laddove un’altra città sconvolta dai bombardamenti non ha ancora potuto apporre il riconoscimento concesso nel 2001 sul proprio gonfalone, conservato presso la sede centrale di Roma del Gruppo Medaglie d’Oro al Valor Militare. Si tratta di Zara, entrata a far parte del Regno d’Italia in seguito al Trattato di Rapallo del novembre 1920 e poi annessa alla Jugoslavia per effetto del Trattato di Pace di Parigi del 10 febbraio 1947. Porto privo di qualsivoglia importanza strategica, il capoluogo della Dalmazia rappresentava tuttavia con i suoi monumenti, le sue chiese e le porte della cinta muraria il simbolo della presenza secolare italiana, per tramite della Serenissima Repubblica di Venezia. Fu il comandante delle truppe partigiane jugoslave Josip Broz “Tito” a convincere l’aviazione angloamericana che si trattava di una piazzaforte germanica da annientare, sicché dal 2 novembre 1943 al 31 ottobre 1944, vigilia dell’occupazione da parte dell’Esercito Popolare di Liberazione della Jugoslavia, oltre 520 tonnellate di bombe spalmate su 54 missioni vennero scaricate all’interno del perimetro urbano e nelle immediate adiacenze. Completamente rasa al suolo, Zara fu anche la città italiana che ebbe la maggior percentuale di morti in percentuale (2.000 su 20.000 residenti), laddove gran parte dei superstiti abbandonò le macerie zaratine per riparare nella penisola.
Privata dei suoi abitanti e dei monumenti che la caratterizzavano, sorse così “Zadar”, celebrata dal poeta croato Vladimir Nazor in un comizio tenutosi il 27 marzo 1945 in maniera tale da comprendere la logica che presiedette alle richieste di distruzione totale portate avanti da Tito: «Spazzeremo dal nostro territorio le pietre della torre nemica distrutta e le getteremo nel mare profondo dell’oblio. Al posto di Zara distrutta sorgerà una nuova Zara, che sarà la nostra vedetta sull’Adriatico». Lo scrittore esule dalmata Enzo Bettiza battezzò Zara “la Dresda dell’Adriatico”, collegando la devastazione della città adriatica al bombardamento a tappeto che riguardò la capitale del Land della Sassonia nella notte tra il 13 ed il 14 febbraio 1945, facendo strage di migliaia di civili e di profughi che vi si erano raccolti. Le associazioni degli esuli dalmati chiesero a più riprese nel dopoguerra il conferimento di una medaglia che ricordasse questa tragica vicenda, ma appena nel 2001 il Presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi motu proprio decise di conferire la Medaglia d’oro al valor militare. Tuttavia l’apposizione sul Gonfalone, proprietà del Libero Comune di Zara in Esilio, non ebbe mai luogo causa le reiterate proteste provenienti da Zagabria, che attualmente esercita la propria sovranità sulla città martire.
Ricordato che su queste colonne sono già state descritte le analoghe vicende che riguardarono Terni e che basta digitare su qualunque motore di ricerca la parola “bombardamento” seguita da qualsiasi capoluogo di provincia italiano per avere sommarie notizie sulle centinaia di incursioni che distrussero case, strade, fabbriche, ponti e vite umane in tutta Italia durante la Seconda guerra mondiale, ecco che la stima di oltre 90.000 nostri connazionali uccisi dalle bombe dei cosiddetti “liberatori” è assolutamente attendibile.
Nell’estate scorsa è stato commemorato il settantennale delle bombe atomiche che devastarono Hiroshima e Nagasaki, ma la clamorosa tragicità di questi due eventi non deve far passare in secondo piano lo stillicidio di bombardamenti su obiettivi civili o comunque privi di rilevanza militare che caratterizzarono gli anni dell’immane conflitto. Indubbiamente “coventrizzare” è un termine che deriva dagli indiscriminati bombardamenti della Luftwaffe che disintegrarono Conventry, ma si può ben dire che britannici e statunitensi appresero molto bene la lezione, amplificando l’effetto delle incursioni aeree con l’uso di bombe al fosforo. La tempesta di fuoco che si scatenava in seguito a questo genere di bombardamenti trasformava le persone in torce umane e nemmeno l’acqua poteva estinguere le fiamme, come possiamo evincere dal macabro passaggio di “Kaputt” in cui Curzio Malaparte descrive le conseguenze dei bombardamenti su Amburgo.
Lo stesso Giappone denunciò nella sola Tokyo più vittime (200.000) al termine dell’operazione “Meetinghouse” rispetto a quelle cagionate dalle ogive nucleari battezzate “Little Boy” (150.000 abitanti di Hiroshima) e “Fat Man” (70.000 cittadini di Nagasaki): il culmine si raggiunse nella notte tra il 9 ed il 10 marzo 1945, allorché la capitale nipponica venne sommersa da 2.000 tonnellate di bombe incendiarie scaricate da 300 B29 decollati dalla base di Guam.
Lorenzo Salimbeni