Premessa del traduttore
Prima di immergersi nella lettura di questo lungo reportage, che abbiamo dovuto tradurre in due pezzi per non affaticare il lettore, è necessario interrogarsi sul come sia stato possibile arrivare a ciò. Un’umanità misera, travolta dalla natura e dalla barbarie, si ammassa rinchiusa al confine tra due nazioni europee. Questi sventurati arrivano da luoghi ove è stata imposta, finanziata e voluta una guerra assurda, che ha causato morte, distruzione e queste migrazioni dove le persone divengono spazzatura. Idomeni non è una vergogna greca, macedone o di chi applica misure restrittive. Idomeni è il frutto di ciò che è stato voluto a tavolino nel 2011, destabilizzando Libia, Siria e altri Paesi arabi. Idomeni è la vergogna dell’occidente in primis, e della sua ipocrisia.
V.Q.
Idomeni, 20 marzo.
Il capitalismo è imbattibile. Da poche settimane esiste l’improvvisato lager al confine greco – macedone nel villaggio di Idomeni, ma i venditori di roba allo spaccio per i migranti sono già arrivati. A bordo di un campo a cento metri dal villaggio c’è un pulmino del corriere DHL, e davanti, un serpentone: siriani, iracheni, pachistani. Diversi collaboratori del corriere sono pieni di lavoro, in attesa di ricevere i documenti e il denaro dai profughi in attesa. I corrieri trasportano per lo più passaporti e altri documenti importanti verso la Germania. Ed è così, per quanto si aprano discussioni con coloro che aspettano, per i ricongiungimenti famigliari ed altre pratiche burocratiche, che si dovrebbero concludere solamente con un soggiorno in Germania. Passaporti, certificati di nascita e altri documenti vengono spediti da qui per 50 euro ad invio agli studi legali tedeschi. Deve essere un lavoro fatto bene. “Con il beneficio del dubbio”, dice un corriere DHL, che in mezzo ad una ressa chiassosa non ha tempo per una lunga conversazione.
All’ingresso del paese, poco lontano dal confine – recinzione con la Macedonia, rom e sinti hanno il commercio nelle loro mani. Si mettono nei terreni di questi loro supermercati mobili, piccoli autocarri non funzionanti e vendono: verdura, biscotti, latte, pasta, uova, zucchero e altre cose della vita quotidiana. Una donna voluminosa con il suo foulard bianco come la neve, troneggia su uno sgabello e vende pentole da cucina, uno scarno uomo con i denti d’oro dice un ritornello sul tabacco: “Marlboro, Marlboro”. Ci sono diversi clan all’opera e fanno di quell’occupazione la loro vita, perché pochi metri più avanti inizia una tendopoli con all’incirca 12.000 persone, le cui esigenze non riescono ad essere soddisfatte a lungo dalle associazioni umanitarie. “Abbiamo solo carne di pollo. Il maiale non lo mangiano”, dice uno zingaro più anziano, come lo definisce lui. Tiene in mano una pezzo di pane bianco, con dentro un po’ di crema di pollo, lo mangia felice e osserva l’attività che va al meglio. Anche le piadine hanno le loro donne in offerta, così come vogliono i musulmani. Se fosse per lui, gli stranieri potrebbero rimanere per sempre ad Idomeni. Vicino al trambusto del mercato c’è una vecchia casa, come se fosse stata disegnata dal pittore Janosch. I muri di un rosetta sbiadito, un tubo di una stufa storto sporge sotto il baldacchino. Sopra un palo della luce hanno fatto il nido una coppia di cicogne. Entrambi gli uccelli scorrono lo sguardo verso il basso, sulle teste di migliaia di persone del villaggio addormentato, e ci si può immaginare che, durante la sera, il maschio della cicogna dica alla sua femmina: “qua, non nidificheremo mai più”. Un’anziana signora, nella casetta rosa ha tirato giù le tendine, e guarda meravigliata l’incrocio davanti al suo giardino, che si è trasformato magicamente come in una piazza del mercato di Aleppo. Sulla terrazza della sua casa ci sono due sedie, sulle quali, forse, lei e suo marito si sono seduti a prendere il sole della sera, sino a quando la storia del mondo non è confluita sulle strade di Idomeni. E così la signora Antonia Mikropoulu poteva fare un pisolino nel suo negozio. Era vestita solo di nero, cosa ancora comune per le vedove in questo Paese. “Prima mi addormentavo sulla sedia dietro il bancone, e ora non riesco più a stare dietro alla mole di lavoro”, afferma la Sig.ra Mikropoulu, che gestisce un “Bazar” di Idomeni, un “Negozio – Zia Emma”, dove si trovano: la cannella, le patate e odori del passato. Idomeni aveva al massimo una cinquantina di abitanti, altri sono morti o si sono trasferiti, racconta la Sig.ra Mikropoulu, il cui “bazar” deve servire da alcune settimane almeno diecimila clienti potenziali in più rispetto al normale bacino d’utenza: “non riesco a fare gli ordini della merce con molta celerità, rispetto a quanto viene venduto”. Se il negozio chiude solo per mezz’ora, per assistere la sorella malata o per andare in bagno, si forma una lunga coda davanti alla porta. Effettivamente è di più di una fila disordinata, perché davanti al negozio della Sig.ra Mikopoulu prevale il diritto dei più forti. “C’è un cucchiaio in questo negozio?”, domanda una giovane donna, che in questa battaglia ha poche prospettive, rimanendo ai margini di tutti coloro che attendono la loro occasione, per ottenere una qualsiasi cosa dentro quel negozio. Viene da Aleppo e le servono dei cucchiai, dice la donna, la cui storia si riduce a: 4 bambini, marito morto, un fratello in Danimarca, la famiglia vorrebbe emigrare in Germania, Inshallah (se Dio vuole, ndt). Tuttavia, più importante di sognare la Germania, in questo momento sarebbe avere un cucchiaio. Lo vuole per i suoi bambini, per cucinare loro qualcosa, dice questa mamma di Aleppo, perché lei, nella mischia di quel negozio, dove in diversi punti e da differenti organizzazioni viene offerto agli accampati del cibo caldo, non riesce mai a mettersi in fila puntuale. E poiché non ha un marito che possa mandare avanti al suo posto, nutre i suoi bambini da giorni con dei panini imbottiti. Ora vorrebbe solo cucinare qualcosa di caldo. Ha già una pentola, mancano solo i cucchiai.
Si cucina ovunque nel “lager”. Centinaia, se non migliaia di piccoli fuochi bruciano vicino alle tende. Qualsiasi organizzazione umanitaria ha portato per alcuni giorni un intero camion pieno di legna da ardere, e ai bordi del campo ha scaricato a cielo aperto. Poi ha piovuto. Ora i ciocchi si accendono difficilmente, e nel caso, fumano terribilmente. E poiché qualcuno ha gettato anche pezzi di plastica e altri rifiuti nel fuoco, la regione è avvolta tutta da fumi tossici. Molti lamentano mal di testa, in quanto ogni giorno aumentano i fuochi. Le caldaie fumano di colori giallo, rosso e talvolta verde, ci sono chiavi, pentole, lì giocano dei bambini, lottano, gridano, uomini adulti si riuniscono in gruppi e dibattono. Una donna ha dei dolori, piange ed emette dei gemiti, due uomini la portano alla tenda di “Medici senza frontiere”. Lì un cartello avvisa: “Le consigliamo di scrivere il suo numero di telefono sul braccio del suo bambino”. Un giovane gioca con uno degli escavatori parcheggiati, cade, sanguina alla testa e corre piangendo dai suoi genitori. In un campo adiacente sbrigano le loro necessità guardando la recinzione del confine con la Macedonia e i casinò lì dietro. Un anziano litiga a voce alta con se stesso o con Dio, un barbuto senza gambe in sedia a rotelle ride sguaiatamente dopo aver udito una battuta apparentemente carina, che gli è appena stata raccontata. C’è un fortissimo trambusto linguistico e aleggia una certa confusione, e nel mezzo fotografie di operatori che riprendono bambini che giocano nel fango. Lo scenario è caotico e contemporaneamente sembra una canzone dal ritornello monotono: tende, pantano, persone, fumo, tende, pantano, persone, fumo.
Fine prima parte – continua.
di Michael Martens – © Frankfurter Allgemeine Zeitung,
traduzione di Valentino Quintana per Opinione Pubblica.