
Federico Bigotti, ventiduenne di Città di Castello, è stato arrestato con l’accusa di omicidio e di maltrattamenti nei confronti della madre. Il ragazzo aveva sostenuto di essersi trovato nella sua camera la mattina del 28 dicembre, quando aveva sentito urlare in cucina, era accorso e aveva trovato la madre che si colpiva con un coltello. Questa versione è apparsa inverosimile agli investigatori, così la loro attenzione si è ben presto spostata su di lui. Dal capo d’imputazione risulta che avrebbe ucciso la madre con “almeno nove coltellate” e che in precedenza l’avrebbe già maltrattata con “ingiurie e violenze psicologiche, minacce anche di morte e percosse”.
La ‘nera’ dei giornali ha riportato molte notizie più degne delle pagine di ‘gossip’ che non di quelle di cronaca, abbiamo potuto leggervi che la vittima, cinquantacinquenne, era da qualche anno in pensione anticipata a causa di gravi problemi alla schiena, che il figlio era violento fin dai tempi dell’asilo e per questo motivo era stato cacciato da due scuole e da una squadra di rugby, che litigavano soprattutto perché lui da un paio d’anni, interrotti gli studi, non usciva quasi più di casa e non cercava un lavoro.
I particolari che hanno ricevuto più attenzione sono però relativi all’attività del giovane sui ‘social network’, soprattutto riguardo il ‘selfie’ pubblicato il giorno dopo l’omicidio con l’hashtag “#riposainpacemamma”, poi tolto dopo aver ricevuto circa 300 tra commenti, insulti ed accuse: qualcuno gli aveva infatti scritto “assassino!”.
Poche ore prima dell’arresto, avvenuto il 2 gennaio, Federico ha poi postato un altro selfie che lo ritraeva sorridente, un atteggiamento curioso per qualcuno che ha perso la madre da pochi giorni.
Andando a ritroso sui profili social di Federico, così lavorano spesso al giorno d’oggi, i giornalisti hanno potuto riferire della sua amarezza per il provino di un ‘talent’ andato male, di qualche delusione amorosa, poi di un dimagrimento molto rapido, circa trenta chili in pochi mesi, testimoniato da numerose foto.
L’avvocato parla di un profondo disagio psicologico, che le molte stranezze mostrate negli ultimi anni confermano: probabilmente chiederà una perizia psichiatrica per il suo assistito, che riferisce essere scioccato, terrorizzato e che continua a ripetere “io amavo mia madre”. Il padre Antonio ha annunciato che, magrado tutto, vuole rimanere vicino al figlio: “Ho capito troppo tardi che aveva bisogno d’aiuto”.
Anche senza un epilogo così tragico, sono numerosi gli utenti dei cosiddetti social che ne fanno un uso non troppo dissimile da quello di Federico e che può essere visto come un segno di profonda sofferenza.
Dal modo in cui gestiva i suoi profili emerge infatti che egli si preoccupava moltissimo del giudizio altrui: esibiva i miglioramenti estetici ottenuti grazie al dimagrimento, si mostrava sorridente seppure non stesse vivendo un buon periodo e così via.
Le persone troppo preoccupate di ciò che gli altri pensano di loro dovrebbero essere messe in guardia dai rischi connessi coll’uso massiccio dei social: la possibilità di studiare a tavolino cosa far vedere e cosa nascondere alletta soprattutto chi non si sente sicuro di sé nelle interazioni faccia a faccia, per il timore di comportarsi in modo umiliante ed imbrazzante. Alcuni soggetti possono essere diagnosticati come affetti da quello che il ‘DSM-V’, la quinta edizione del manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali a cura dell’associazione degli psichiatri americani (2014), definisce ‘Disturbo d’ansia sociale’: disagio molto diffuso, secondo il succitato manuale il 7% dei cittadini statunitensi ne soffre almeno una volta l’anno.
Anche la maggioranza delle persone che non risponde ai criteri diagnostici del disturbo può però essere, almeno qualche volta, inibito a causa del bisogno di considerazione, ben descritto nel film di Guy Ritchie ‘Revolver’ (2005) come “l’unico motivo per cui ti alzi al mattino. L’unico motivo per cui sopporti un capo stupido. Il sangue, il sudore e le lacrime. Questo perché vuoi che le persone sappiano quanto sei bravo, attraente, generoso, divertente, intelligente. Temetemi o riveritemi, ma per favore pensate che sono speciale. Condividiamo una dipendenza. Siamo tossicomani dichiarati. Vogliamo tutti la pacca sulla spalla e l’orologio d’oro”.
La spiegazione di questo fenomeno sta nel fatto che spesso i genitori trasmettono ai figli il messaggio “se non ti comporti come si deve, mamma e papà non ti vorranno più bene”. Lo fanno senza rendersene conto, tentando di rintuzzare dei comportamenti inadeguati, ma rimproveri e castighi sono gestibili solo dai bambini che sono sicuri di essere amati. In pratica: più affetto riceve un bambino e più severità potrà tollerare.
I bambini non sicuri dell’amore genitoriale vivono i rimproveri come una prova del fatto di non essere amati, quindi sono disposti a tutto pur di evitarli, cosicché interiorizzano una regola secondo la quale per essere apprezzati da qualcuno, si deve compiacerlo. Anche quelli che in adolescenza riescono a mettere in discussione l’autorità dei genitori, rischiano di diventare assolutamente compiacenti nei confronti di altre persone, che spesso sono i loro coetanei di riferimento. E allora possono sviluppare una dipendenza dai “mi piace” ricevuti da ciò che postano su ‘Facebook’ o ‘Instagram’.