Oggi in Brasile vivono circa 240 tribù indigene per un totale di quasi 900.000 persone, lo 0,4% della popolazione del paese. Il governo brasiliano ha riconosciuto alla sua popolazione indigena 690 territori, pari a circa il 13% del suolo brasiliano. Quasi tutti questi territori protetti (il 98,5%) si trovano in Amazzonia e sono abitati da circa la metà degli indigeni del paese.
Jair Bolsonaro, il nuovo presidente brasiliano d’ispirazione populista e legato ai militari, non poteva inaugurare peggio di così la sua presidenza. La sua decisione di togliere al Funai (il Dipartimento brasiliano agli affari indigeni) la responsabilità di demarcare le terre indigene per affidarla al Ministero dell’Agricoltura (legato alle lobby dei latifondisti) è una vera e propria dichiarazione di guerra ai popoli indigeni brasiliani. Tereza Cristina, il nuovo ministro dell’Agricoltura, si oppone da tempo ai diritti territoriali indigeni ed è a favore dell’espansione dei latifondisti all’interno dei territori amazzonici. È un assalto ai diritti, alle vite e ai mezzi di sussistenza dei popoli indigeni del Brasile che deve preoccupare tutti, visto che l’Amazzonia è il più grande polmone verde del globo.
Il furto dei territori indigeni getta una lunga ombra sulla probabile catastrofe ambientale. I popoli indigeni sono infatti, ovunque nel mondo, i migliori custodi dell’habitat naturale. Il genocidio culturale ed etnico si trasformerebbero automaticamente anche in una catastrofe ecologica. I latifondi sottraggono terreni che da sempre sono regolati dagli usi collettivi degli indigeni, distruggono l’ambiente perché creano le monocolture e allevamenti intensivi con cui si produce la carne dei fast food, con sprechi di risorse e disastri incommensurabili.
Anche il consumatore può fare la sua parte. Disertare i prodotti brasiliani potrebbe indurre il presidente brasiliano a un ripensamento. L’ordinamento internazionale inoltre ha bisogno di nuove norme sul genocidio culturale ed etnico. Come ho rappresentato nel mio libro sulle minoranze etniche del Vietnam del Nord (*), “mancano ancora norme efficaci che sanzionino la distruzione del patrimonio culturale dell’Umanità. La distruzione di tale patrimonio attraverso l’eliminazione, la marginalizzazione e la derelizione delle minoranze etniche e dei popoli indigeni rappresenta un annullamento delle identità dei popoli: minacciare la loro memoria storica, la tradizione, e quella ricchezza esperienziale che è risorsa necessaria all’esistenza stessa di questi popoli e al loro sviluppo significa impoverire tutta l’Umanità e portare alla devastazione ambientale in nome dei profitti di latifondisti e multinazionali”.
Mangiamo meno hamburger e leggiamo più libri di Serge Latouche, e cerchiamo di comprendere che tutti noi apparteniamo allo stesso pianeta, e se non arrestiamo questi disastri diventeremo presto un pianeta di naufraghi, che attende impotente nuove ondate di piena. Una grande cecità, come l’ha definita Amitav Gosh nel suo saggio (**), “continua a impedire la visione ai più. Il riconoscimento segna notoriamente il passaggio dall’ignoranza alla conoscenza, e il riconoscimento avviene quando la consapevolezza interiore balena dinnanzi a noi comportando un repentino mutamento della comprensione. Di ciò erano consapevoli i nostri antenati, che imparavano presto dai disastri naturali, consapevolezza che sembra non albergare più nelle menti degli uomini di oggi che, appunto, restano ciechi. Oggi l’occultamento della realtà nell’arte e nella letteratura contemporanee sembrano una costante: questa nostra epoca, così fiera della propria consapevolezza, verrà presto definita l’epoca della Grande Cecità. Avremmo ancora molto da imparare dai popoli indigeni sul corretto uso delle risorse naturali, e se li condanniamo all’estinzione condanneremo anche le nostre future generazioni”.
(*) Alessandro Pellegatta,, Vietnam del Nord. Minoranze etniche e doposviluppo, Besa editrice, 2018
(**) Amitav Gosh,, La Grande Cecità. Il cambiamento climatico e l’impensabile, Neri Pozza, 2017