Sosteneva John Stuart Mill che ogni impedimento ad una libera manifestazione di pensiero equivalesse ad un furto perpetuato ai danni dell’intera umanità, in particolar modo per gli oppositori dell’opinione incriminata.
Se, infatti, si tratta di un pensiero corretto non è reprimendolo che chi lo avversa passerà dal torto alla ragione. Viceversa, se il pensiero è errato, metterlo al bando contribuirà a fargli perdere la bussola della verità.
Il filosofo britannico, dunque, sarebbe contento per la sentenza del Tribunale di Torino che ieri ha assolto Erri De Luca dall’accusa di istigazione a delinquere. Lo scrittore napoletano era stato denunciato dalla Lyon Turin Ferroviaire, la ditta che ha in costruzione la linea ferroviaria ad alta velocità Tav, a seguito delle sue dichiarazioni favorevoli al sabotaggio dell’opera.
Il giudice ha stabilito che “il fatto non sussiste” respingendo la richiesta di otto mesi di reclusione avanzata dal pm.
Il processo a De Luca ha riproposto la sempiterna questione della legittimità o meno di imporre limiti alla libertà d’opinione specialmente in contesti di grave tensione sociale e politica.
Il suo volto rugoso, da saggio nostromo, è assurto a simbolo di una battaglia a favore del diritto al dissenso e contro il reato d’opinione da combattere in nome dell’articolo 21 della Costituzione italiana.
Pur respingendo la tentazione ideologica che vuole eroicizzarlo, va riconosciuto che, in un’epoca di appiattimento intellettuale, De Luca si è fatto vanto della sua “parola contraria” e l’ha difesa, irriducibilmente, anche alla sbarra di un tribunale.
Il processo conclusosi a Torino ci ha catapultato in un tempo passato, nell’Italia in bianco e nero degli anni ’50 dove era ancora possibile farsi più di un anno di gattabuia per un reato d’opinione.
Giovannino Guareschi, il più venduto autore italiano all’estero, scontò ben 405 giorni nel carcere di Parma dopo essere stato denunciato da De Gasperi per la pubblicazione di un articolo sul “Candido”. E l’Italia contadina di cui proprio i “guareschiani” don Camillo e Peppone incarnano la maschera più riuscita, quel paese che sa di uva delle vendemmie e ha la schiena curva e le mani callose di chi lavora la terra, s’ostina a voler sopravvivere in Val di Susa.
Ma tra i borghi della vallata alpina più estesa il rumore allegro dei mortaretti accesi per le feste patronali è stato sostituito da quello angosciante dei petardi esplosi durante gli scontri tra manifestanti e forze dell’ordine. È qui che nasce il processo conclusosi ieri a Torino, è qui, tra gli attivisti del Movimento No Tav che, secondo l’accusa del pubblico ministero, le parole di De Luca avrebbero incitato a compiere atti fuorilegge.
Ma la sentenza di ieri ha definitivamente smontato l’impianto accusatorio che attribuiva allo scrittore il ruolo di “cattivo maestro” e stabilito che non si può finire in galera per aver espresso un’opinione. A prescindere dalla necessità dell’opera, mettendo da parte la questione se la sua esecuzione comporterà danni o benefici per la comunità valsusana, con la giornata di ieri viene sconfessato qualsiasi legame tra le parole dell’intellettuale e gli attacchi ai cantieri della Tav messi in atto da alcune frange della protesta.
Un’opinione, per quanto discutibile essa sia, resta pur sempre un’opinione.
Nico Spuntoni