Un articolo uscito in questi giorni su StartMag, una pubblicazione online dedicata al mondo di internet e della tecnologia, mette in guardia dal “pericolo” che sarebbe rappresentato da una sempre più popolare applicazione di origine cinese, TikTok. Si tratta, in sintesi, di una delle tantissime app che si possono trovare negli store online, pensate per scambiarsi con gli utenti e i contatti messaggi, foto e contenuti vari: insomma, un equivalente delle più note WhatsApp, Telegram, SnapChat e così via.

Perché sarebbe pericolosa, rispetto alle altre app più popolari in Occidente? Perché, secondo l’autore dell’articolo che si rifa a fonti d’Oltreoceano (ovvero degli Stati Uniti che in questo momento sono in lotta aperta con la Cina su tutti i fronti, non ultimo quello del controllo e dell’importanza nel mondo del web), la sua crescente popolarità anche fra i giovani e giovanissimi occidentali e statunitensi in particolare la renderebbe uno strumento “preferenziale” per le autorità di Pechino per spiare i loro gusti, le loro tendenze e le loro opinioni, oltre ad implementare in loro una sorta di “propaganda” subdola ed occulta tramite la proposta di video ed altri contenuti favorevoli all’immagine internazionale della Cina popolare.

A puntare per primi l’indice contro l’app cinese sono stati due senatori USA, il democratico Chuck Schumer e il repubblicano Tom Cotton, con un appello bipartisan al prefetto Joseph Maguire. Esattamente come già era accaduto ad altre app come Telegram, accusata di facilitare l’infiltrazione spionistica della Russia nella vita privata dei suoi utenti occidentali, anche in questo caso si ripetono sostanzialmente le medesime accuse, mettendo però sul banco degli accusati la Cina, e addirittura si rincara la dose, parlando apertamente di TikTok come di uno strumento propagandistico, al cui interno i contenuti sgraditi alle autorità di Pechino verrebbero rimossi o censurati in favore di altri ben più benevoli ma anche, così viene insinuato, meno veritieri.

Naturalmente Stati Uniti e Cina sono in concorrenza sempre più diretta per la “corsa al web”, e i primi per mantenere il loro storico predominio non esitano ad accuse il più delle volte infondate, come già era avvenuto nei confronti della Russia. Il monopolio dei grandi colossi USA del web e dell’elettronica, in questa situazione, è sempre più messo in discussione dal crescente successo dei rivali cinesi, dai computer tradizionali agli smartphone, dalle applicazioni ai social network, e così via. Le sanzioni a Huawei fanno parte di questa storia, e anche in quel caso non mancarono accuse di “scarsa sicurezza” per la privacy dei cittadini occidentali, sebbene i fatti abbiano dimostrato che fossero semmai i dispositivi prodotti in Occidente a vantare maggiori problemi in tal senso, a tacere poi dei social network a stelle e strisce come Facebook o l’app di sua proprietà WhatsApp. Dunque, certe accuse servono anche a riaffermare la “posizione dominante” dei mostri sacri del settore, di proprietà statunitense, contro la concorrenza degli equivalenti cinesi, sempre più difficile da sostenere e contrastare.

Per entrare maggiormente nella questione TikTok, ecco così che viene menzionata anche un’altra fonte, il quotidiano inglese The Guardian, secondo cui l’app cinese avrebbe chiesto ai propri moderatori di censurare qualunque tema ritenuto “scomodo” per le autorità di Pechino, in particolare i fatti di Piazza Tienanmen, l’indipendenza tibetana e il Falun Gong. Ancora, risulta che all’inizio di ottobre Marco Rubio, il noto senatore repubblicano della Florida, legato agli ambienti della famigerata comunità cubana di Miami, “si era rivolto al ministro del Tesoro Usa Steven Mnuchin, invitando la Commissione per gli Investimenti Esteri (CFIUS) perché indagasse sui legami di TikTok con le istituzioni cinesi per individuare possibili influenze, interferenze o forme di controllo”.

Conoscendo il modo di agire dei vari movimenti anticinesi in Occidente, che si tratti di Nord America od Europa, non c’è quindi da dubitare che ben presto inizieranno ad estendere la loro campagna di disinformazione a danno di Pechino anche sul tema della “cybersecurity”. Abbiamo già visto come in varie occasioni, in particolare manifestazioni pubbliche, le varie forme di associazionismo amiche o vicine nei confronti degli ambienti Free Tibet, del Falun Gong o della Chiesa di Dio Onnipotente, tutte realtà non di rado politicizzate e comunque sia laiche che religiose, abbiano spesso e volentieri fatto causa comune per meglio riempire le piazze e dare all’opinione pubblica e ai media benevoli verso di loro l’impressione di una maggior partecipazione e di un più vasto seguito popolare. Il loro collante è l’ostilità verso il governo di Pechino, che con una certa facilità riescono a ribadire anche nelle coscienze dei comuni cittadini facendo appello sulla sinofobia generalizzata di molti occidentali e che inoltre garantisce loro “porte aperte” e amichevole disponibilità da buona parte del nostro mondo politico, anch’esso in gran parte abituato a non far mistero della propria sinofobia e quindi ben lieto di dare spazio e spago a quelle porzioni di società civile che fanno il loro gioco.