Il problema della questione jihadista nel mondo contemporaneo è, direi plasticamente, interconnesso con le sfide più cruciali della nostra epoca. Interessa i conflitti fra grandi potenze non meno dei rapporti di queste con le specificità della civiltà islamica, si muove lungo il fiume in piena delle immigrazioni di massa che coinvolgono il continente eurasiatico e vampirizza le esistenze di quelle “vite di scarto” che l’Occidente ingoia e moltiplica nel suo vortice di disintegrazione dei tessuti sociali. Il jihadismo in qualche modo precede questi fenomeni, ma si palesa compiutamente, non a caso, in sincronia con alcuni eventi recenti.

Di per sé, il termine stesso “jihadismo” non è che una deformazione concettuale del complesso di valori legato alla dottrina islamica dello jihād, nella sua duplice funzione di lotta per la difesa della comunità e di lotta spirituale contro quelle forze che ostacolano l’uomo nel suo cammino verso Dio. Il termine riflette il tentativo di ideologizzare quello che ideologia non è, ovvero l’Islam in quanto civiltà, presentandolo come aggressiva “religione della spada”, il che è funzionale ai centri di potere che oggigiorno innervano le masse di discorsi sullo “scontro di civiltà”. Indica inoltre giornalisticamente la declinazione militarista del fondamentalismo islamico, spinto da interpretazioni settarie e deviate della legge coranica, quello organizzato in milizie di fanatici combattenti contro l’Ovest corrotto e ateo: il jihadismo si origina dal brodo di tali esegesi integraliste, ma trova la sua via con i caratteri autonomi del bellicismo religioso.

Sarebbe assai difficile comprendere questi fenomeni senza riflettere sulla storia musulmana, su come i popoli del Vicino Oriente abbiano subito un’aggressione coloniale (e culturale) incessante da ben due secoli da parte dell’imperialismo occidentale (a voler escludere le Crociate), e quindi su come il fondamentalismo stesso sia una reazione, per quanto disordinata, agli assalti che su ogni livello l’Occidente ha portato avanti contro il mondo islamico. Né si è trattato solo di spinte esogene dirette (spedizioni militari, penetrazione commerciale, colonialismo di sfruttamento), se il modus dominandi preferito dagli invasori è sempre stato quello di scatenare lotte fratricide, settarismi socioculturali e, nell’ultimo secolo, quello di cooptare alcune frange militari al perseguimento di certi scopi: l’eterodirezione della lotta armata è alla base di quello che oggi chiamiamo “il fenomeno jihadista”.

L’uso politico di queste divisioni tra religione e tribalismo nell’Ummah è in verità un’invenzione britannica, risalente all’epoca del Grande Gioco, quando gli Inglesi convogliavano le azioni militari degli emirati afgani contro la Russia zarista, ma ha compiuto un salto di qualità decisivo solo nel secondo dopoguerra, nel momento in cui gli occidentali strumentalizzarono due famose correnti dell’Islam moderno contro il nazionalismo panarabo alla Nasser e in chiave anti-sovietica (dal ’79 anche in opposizione all’Iran di Khomeyni): quella reazionaria e massimalista del Wahhabismo (attuale “credo” di Stato in Arabia Saudita) e quella purista salafita (salaf, “antenato”) in Egitto, Palestina e Siria. Per quanto le definizioni di wahhabiti e salafiti siano solitamente usate come sinonimi, esistono differenze tra le due impostazioni, ma anche convergenze decisive. Mentre i primi sostengono un’interpretazione esclusiva della religione e rifiutano secoli di esegesi e giurisprudenza dottrinali al fine di tornare fattualmente a quello che sarebbe l’Islam delle origini, i secondi si propongono la via dell’adeguamento islamico alla civiltà moderna per mezzo di una “bonifica” religiosa (in senso puritano) della società musulmana. Divergono sulle modalità di reazione all’ingerenza dell’Occidente e convergono sul rifiuto estremo dei suoi valori, ma in particolar modo concordano sulla cesura che va tracciata tra le speculazioni filosofiche e giuridiche delle multiformi correnti della cultura islamica, considerate devianti ed eretiche, e il percorso di ritorno allo spirito originario del Corano e dei primi profeti del quale wahhabiti e salafiti ritengono di rappresentare gli unici interpreti ammissibili.

Va da sé che l’ansia riformatrice di wahhabismo e salafismo costringe a conflitti profondi il mondo islamico, lungi dall’essere il monolito granitico di certi falsificatori, e crea quelle fratture importanti nelle quali l’imperialismo penetra per spezzare i tentativi di unità politica di quei popoli ed estendere la propria egemonia. Con la trasmissione dei poteri dall’asse Parigi-Londra a Washington nel secondo dopoguerra, gli Stati Uniti hanno ereditato questo ruolo di fendighiaccio, manovrando le spinte settarie di wahhabismo e salafismo in direzione dei propri interessi.

La prima apparizione del jihadismo organizzato la abbiamo nell’Afghanistan del ’79, supportato in chiave anti-russa all’epoca dell’invasione sovietica di quel Paese. E’ il caso dei “mujaheddin” (letteralmente “coloro che compiono uno sforzo”, giornalisticamente “combattenti nel jihad” : la radice del termine meriterebbe qualche parola in più), i gruppi d’opposizione che combatterono l’Armata Rossa in quegli anni, fino al ritiro delle truppe nell’ ’89. E’ noto come queste fazioni vennero armate, finanziate e persino addestrate dall’intelligence americana (nonché manipolate psicologicamente, coi richiami alla guerra santa contro l’Urss al tempo dell’Emirato di Buchara), così come noto è il loro più importante organizzatore, il miliardario saudita Osama Bin Laden, formatosi sotto l’educazione religiosa wahhabita. Bin Laden internazionalizzò la rete di contatti dei mujaheddin (ben oltre la conclusione dell’invasione sovietica) con il Maktab al-Khidamat e il suo più famoso erede genetico, al-Qaeda, ma le sue attività rimasero quiescenti per quasi un decennio – forse perché non più utilizzabili come arma contro il polo comunista, ormai disfatto – fino alla fine degli anni ’90, con una serie di attentati contro occidentali, culminati negli attacchi aerei dell’11 Settembre 2001. Senza entrare nel merito, fu questo evento cruciale a imprimere nell’opinione pubblica occidentale la percezione del jihadismo come fenomeno globale ramificato e in lotta oscurantista contro i sacri valori della Democrazia, della Libertà e del Progresso, col suo ritorno propagandistico di islamofobia e retorica da scontro di civiltà. In realtà è sempre stata la superpotenza statunitense a giocare con il “mostro jihadista” come il gatto col topo, sbandierando l’immagine del fanatico qaidista come nemico dell’umanità per giustificare il progetto di una riorganizzazione del Medio Oriente con le occupazioni di Afganistan e Iraq, a tal punto che Sibel Edmonds, ricercatrice ed ex-traduttrice dell’FBI, ha potuto parlare di una Gladio-B in filiazione diretta delle operazioni stay-behind attive in Europa (GLADIO era la dicitura usata per l’Italia) durante la guerra fredda.

Come negli Anni di Piombo i servizi segreti atlantisti usavano gruppi di estremisti politici per influenzare le politiche europee, oggi è il fondamentalismo islamico a essere infiltrato e diretto contro i nemici dell’Occidente: in Cecenia e Xinjiang contro Russia e Cina, ma soprattutto lungo l’arco mediterraneo-centroasiatico, dall’Algeria al Pakistan, contro le potenze regionali che resistono all’espansionismo statunitense. Il fenomeno della “primavera araba” altro non è stato che il tentativo di liberarsi di questi antagonisti e ridisegnare il sistema di alleanze che Washington ha costruito nella regione. Ma ha comportanto anche lo svelamento decisivo di come gli Stati Uniti sfruttino integralmente l’islamismo, fino alle sue propaggini jihadiste .La caduta della Libia di Gheddafi, la mattanza nella Siria di Assad e i rovesciamenti di governo in Egitto, Yemen, Tunisia sono stati portati avanti da attivisti e miliziani diversamente intrisi di retorica salafita e wahhabita e finanziati da Arabia Saudita e Qatar, monarchie assolute alla ricerca di un’espansione anche ideologica nel mondo islamico, e dalla Turchia, col progetto neo-ottomano di Erdogan: in breve, i tre vassalli degli USA nell’area. Il passaggio dall’attivismo politico alla “guerra santa” è stato evidente in modo particolare nel caso libico, e lo è ancora sullo scenario siriano. In entrambi i casi le opposizioni locali ai governi laici della Jamahiriyya e della Siria baathista si sono lentamente diluite nei diversi gruppi jihadisti che le hanno infine divorate, rilevandone l’azione dissolutrice.

Variegata la provenienza geografica di questi combattenti, dal Caucaso all’Arabia fino all’Africa Nera, il che porta a concludere che riferirsi a questa nuova dimensione del terrorismo col nome collettivo di Internazionale Jihadista sia qualcosa in più della trovata da pennivendolo. Del resto, la comparsa improvvisa del fenomeno ISIS nell’area mesopotamica, il risveglio psichico del mito islamico del Califfato (nella sua versione radicalista) che ha di fatto portato buona parte dei miliziani jihadisti di tutto il mondo (Boko Haram in Nigeria, l’Emirato di Derna in Libia, il sostanziale assorbimento di al-Qaida nello Stato Islamico) ad associarsi ad Al-Baghdadi, rappresentano una tappa di autocoscienza da parte del jihadismo, non più frammentato in diverse aree del globo, ma aggregato attorno a un “cuore” pulsante. Che questo movimento centripeto sia funzionale alle strategie atlantiste contro Siria e Iran è quanto garantisce la sua sopravvivenza ed espansione: senza petrodollari e connivenza occidentale la nebulosa jihadista svanirebbe in breve tempo.

Al momento però il virus agisce ed ha portata intercontinentale, se pensiamo che sfrutta tanto le rotte dell’immigrazione quanto i “dannati della terra” che il radicale individualismo dell’Occidente produce, da buon anus mundi, ovvero le migliaia di adepti e simpatizzanti ben inseriti sul nostro territorio, ammaliati dalla possibilità di un’esistenza finalmente piena di senso, per quanto mortifero. Queste sarebbero le radici occidentali del jihadismo, che pure meritano ulteriori analisi. Ma questo è un ben altro capitolo.