E’ giusto tornare sul tema del lavoro ancora una volta, visti gli ultimi indicatori apparsi nei media nazionali. Il primo indicatore, afferma che solo la metà dei laureati italiani, a tre anni dal titolo di studio ha trovato lavoro. Il secondo, spiega invece che un laureato su due sogna di lasciare il Paese. I motivi riguardanti il secondo indicatore sono quasi sempre gli stessi: assenza di meritocrazia, arricchimento e confronto in un Paese straniero, impossibilità di garantire un futuro roseo in Patria. Si stima che solamente il 33% riesca a riuscire a trovare un lavoro senza dover lasciare affetti e nucleo famigliare.

Se poi confrontiamo i dati post Università relativi all’impiego, tra l’Italia e altri Paesi della Ue o altamente industrializzati c’è un abisso. Se calcoliamo che in Italia il 52,9% risulta occupata entro tre anni, la media Ue è 80,5%. Se consideriamo l’educazione terziaria, quindi dalla laurea breve al dottorato, il nostro Paese si piazza sempre in penultima posizione, dopo la Grecia (52,9% contro il 93,1% della Germania).

A questo punto, continuare ad enucleare cifre, risulterebbe inutile. Le tanto decantate riforme non stanno portando ad alcun risultato tangibile, l’Italia continuerà ad andare avanti “senza italiani”, sempre più intenti a fare le valigie e a scappare da un luogo senza futuro. Quel che mi preme, è realizzare in queste righe, nel limite del possibile, un’analisi sociologica del lavoro, ed aprire un dibattito con i lettori.

Da quando, una decina di anni fa circa, sono entrato nel mondo del lavoro, ho sempre sentito parlare di crisi. Non era il 2008, quindi non eravamo ancora coinvolti nella mega bolla immobiliare che avrebbe distrutto le economie di tutti i continenti, salvo rari casi. Mi riferisco quindi a prima di quell’anno fatale, dove gli indicatori economici non davano segnali allarmanti, e le cosiddette ricerche di lavoro, erano presenti, anche numerose. Eppure, nella mia regione, il Veneto, ci si considerava già in stato di crisi. Durante le selezioni, oggi come allora, durante i colloqui, non c’è mai stata una visione concreta né del titolo di studio, né del valore della persona. Per prima cosa si cercava il criterio economico mediante il quale inquadrare la persona per garantire un salario più basso possibile, in secondo luogo, si guardava l’esperienza.

E’ lapalissiano che gli interessi di datore di lavoro e lavoratore siano diversi, se non opposti, ma posso garantire, che mi è capitata una volta sola di essere selezionato per il mio titolo di studio. Il riferimento, è chiaro: non v’è correlazione tra il profilo conseguito nell’arco della propria formazione scolastica, e quello che il mondo del lavoro potrà offrire e poi inquadrare.

Citando l’inquadramento, è chiaro che le tasse che il Governo Italiano ha posto sull’imprenditoria, non ha potuto garantire grandi margini di manovra circa le assunzioni. Ciò è vero solo in parte. Vi sono aziende, anche di media dimensione, che sono perfettamente in attivo. Lo sono da anni, decenni. Non avrebbero alcuna difficoltà a garantire un’assunzione regolare, né vi sarebbe stata in passato. Eppure, permane la convinzione, ora più che mai, che non vi debba essere alcuna tutela per il lavoratore. Se si è passati da contratti a tempo indeterminato (con basso inquadramento) ai tirocinii e ai voucher, questo è stato il frutto delle dissennate politiche di sviluppo economico, divenute legge, e quindi sfruttate a pieno dagli imprenditori. Ricordiamo ai lettori che siamo passati, in pochissimi anni, dal pacchetto Treu alla Legge Biagi, all’ultima grande devastazione dei diritti sociali chiamata Jobs Act.

Ora, ad un neo diplomato o neo laureato che si presenti ad un colloquio di lavoro, verranno proposti (quasi indipendentemente dall’importanza del ruolo da ricoprire, ecco perché l’Italia non è un paese meritocratico) degli stage (non finalizzati all’assunzione, chi non ricorda il sito “La repubblica degli stagisti” e le drammatiche storie ivi raccontate (1)?) o dei voucher, l’ultima grande invenzione per legalizzare il lavoro nero. Un buono INPS con copertura INAIL di Euro 10,00 per i quali si guadagnano Euro 7,50 all’atto della riscossione, è il nuovo metodo di pagamento ufficialmente occasionale, ma che ha avuto un boom del 282% solo nel 2015. Coincidenze? Ora chiediamoci come si possa costruire un futuro con dei pagamenti a voucher e perché si voglia scappare all’estero.

Nella regione in cui vivo, il Veneto, v’è sempre stata una cultura che ha sempre soverchiato le altre: gli schei. Per chi non conoscesse la “volgare” parola, si tratta del “vil denaro”. Questo, in particolar modo nella mia realtà, è in grado di oscurare tutto, quasi fosse un’ossessione maniacale. Non è concepibile un albergo dove vi siano camere libere, un bar dove vi sia un tavolo ove sieda un cliente in attesa, un’attività ove non si venda il prodotto, un momento in cui si rimanga, per puro caso inattivi. Se una di queste variabili si manifestasse, la colpa (atavica ed irrimediabile) sarà del dipendente. Nello specifico, se si sarà in un albergo la colpa sarà dell’impiegato incapace di vendere la camera (al telefono soprattutto), se ci si troverà in un bar, il dipendente avrà la colpa di far attendere troppo, e se si rimane in attivi anche solo per un attimo, ci si macchia di una sorta di macchia indelebile.

Il motore di tutta questa farsa sono i soldi: da una parte, una classe dirigenziale che ha fatto miliardi, e che ora ha figli quarantenni che speculano sui dipendenti. Dall’altra, una piccola media impresa (nel caso veneto sterminata dalla crisi) perduta come un miraggio, e un’infinità di giovani che chiedono un posto di lavoro, i quali vedono sulla loro pelle l’applicazione di questi metodi neo – schiavisti. Tutto ciò si potrebbe evitare, cambiando semplicemente una cosa, che mai non è stata considerata: la mentalità.

Negli articoli ove si considera il fenomeno della crisi, non si è mai pensato alla mentalità. Ammesso che gli obiettivi tra datore di lavoro e lavoratore siano diversi (a volte non strettamente incompatibili), come si può pensare che rimanga una classe imprenditoriale senza la manodopera, resta un mistero. Se continueranno ad essere proposte forme di sfruttamento, e a non valorizzare il percorso scolastico fatto in precedenza, in nome del mercato e della crisi, non ci si può meravigliare se molti giovani scelgano di lasciare il Paese. Consideriamo anche l’ultimo dei grandi meccanismi mai citati dai giornali: il ricatto.

Quando un datore di lavoro decide di far accettare delle condizioni vessatorie, e quest’ultimo tentasse di ribellarsi, non avrà molta scelta: o dovrà cambiare lavoro (ricordiamo che i contratti a tempo determinato esistono ancora, e i soggetti assunti a tempo indeterminato, dopo la riforma, possono essere soggetti a licenziamento), o dovrà acconsentire alle modifiche, in negativo, della sua situazione lavorativa. Non cito nemmeno il sindacato, che non ha saputo nel corso degli anni capire le sfide del mondo del lavoro italiano, incapace totalmente di conciliare le due parti in un percorso comune.

E’ per quello che sposo la tesi più radicale: non è tanto la legge a limitare il lavoro, ma la mentalità. Nel corso della mia carriera (posso dire breve, per limiti anagrafici) lavorativa, sono stato soggetto ad interrogatori veri e propri per essere andato (2 minuti di orologio) alla toilette, per non avere fatto lavori totalmente inconferenti alla mia mansione (dopo l’orario di lavoro ovviamente), e sono anche stato umiliato verbalmente in maniera gratuita. Dietro l’ossessione della produttività, si cela quella del denaro, un hororr vacui che deve calpestare tutto e tutti. Con questi presupposti, il lavoro in Italia scomparirà. Le poche sicurezze delle generazioni precedenti, i pochi risparmi accumulati dall’italiano formichina non saranno più sufficienti a garantire il benessere passato per le generazioni nate dal 1980 in poi. Non essendoci tutele, vi sarà solo un’emorragia progressiva ed infinita verso i miraggi chiamati: Londra, Parigi, Berlino.

Il mio appello, è di cambiare mentalità: imprenditori, assumete. Proverete che i giovani italiani valgono, perché all’estero, chi ha un ruolo di un certo livello può dimostrare senza problemi il suo valore. Credete nel futuro di queste generazioni, altrimenti, non sarà garantita una continuità. A scapito non solo del privato, ma di un’intera nazione.

(1) https://www.repubblicadeglistagisti.it/

UN COMMENTO

  1. Gli imprenditori non possono e non devono cambiare mentalità. A fronte di una crisi di domanda reagiscono nell’unica maniera possibile: tagliando i costi. Ed è nella loro legittimità farlo, essendo appunto imprenditori. E’ compito dello Stato invece creare le condizioni per le quali essi si ritrovino ad operare in un contesto dove la domanda cresce ( cioè quando crescono i salari, ça va sans dire ) in un mutuo scambio di opportunità tra imprenditori e lavoratori. Purtroppo lo Stato attualmente deve operare sul lato dei salari svalutandoli, in modo da recuperare competitività sui mercati internazionali, unico contesto dove si possa reperire quel surplus monetario utile per la crescita. E’ l’essenza del libero mercato che, disattivando lo Stato, crea un campo di battaglia dove non ci sono sicurezze e dove vince il più forte. Se vogliamo un contesto economico del genere, accettiamo il fatto di farci pagare come il lavoratore del Bangladesh ( che rimarrà sempre enormemente più competitivo di noi ). Altrimenti ci “tocca” impugnare la Costituzione Italiana e difendere i diritti che essa definisce, buttando a mare tutti i trattati sovranazionali.

Comments are closed.