Il pasticciaccio capitolino è destinato ad assumere le dimensioni di fondamentale crocevia per l’esistenza politica del Movimento Cinque Stelle.
Questo, sia chiaro, non in virtù dell’effettiva gravità degli errori commessi nel caso Muraro che appare, tutto sommato, irrisoria. L’importanza degli eventi che in questi giorni hanno coinvolto la giunta di Virginia Raggi sta nell’aver messo a nudo la malattia congenita del movimento di Beppe Grillo: il giustizialismo. Un giustizialismo oltranzista, incapace di tonalità intermedie e manifestatosi sin dai tempi dell’iniziativa popolare “Parlamento pulito” in cui si mettevano sullo stesso piano le condanne per diffamazione con quelle per corruzione.
La storia politica italiana insegna che la tentazione giustizialista, per quanto inizialmente prolifica in termini di consensi, costituisce la più temibile delle armi a doppio taglio. Un’arma a doppio taglio maneggiabile soltanto da quella fazione politica che può beneficare di un elettorato ciecamente fidelizzato e di un’influenza culturale tale da far passare in sordina l’evidente ed inevitabile propensione alla doppia morale dei suoi esponenti.
Non è il caso dei cosiddetti grillini, la cui vocazione maggioritaria risiede nella capacità attrattiva verso l’elettorato moderato, lo stesso che di volta in volta si è lasciato ammaliare dal sorriso seducente di Berlusconi o rassicurare dal faccione bonario di Prodi finendo per fungere da ago della bilancia di tutte le elezioni da vent’anni a questa parte.
Si deve aggiungere, poi, che il M5S continua a non toccare palla al di fuori del web ed a sette anni dalla sua fondazione, se solo recentemente e fra mille difficoltà si intravede al suo interno una minima parvenza di classe dirigente, non ha ancora sfornato alcuna covata di intellettuali ad esso organici – o quantomeno simpatizzanti – in grado di assicurargli una contraerea mediatica difensiva sugli altri mezzi di comunicazione in casi come quello di questi giorni.
Come giustamente sottolineato anche da Enrico Mentana con un post sulla sua pagina Facebook, il caos in Campidoglio ha messo i Cinque Stelle davanti ad un bivio: adesso, o hanno il coraggio di mutare pelle ed abbandonare l’involucro originario per approdare ad un, forse meno redditizio, ma sicuramente più maturo garantismo; o rischiano di impattare nel carico autodistruttivo insito nel giustizialismo, più incline all’assolutismo democratico che alla democrazia diretta promessa da Gianroberto Casaleggio.
Ormai ogni provvedimento amministrativo può essere impugnato da chicchessia e causare un’indagine penale al funzionario che l’ha firmato. Quindi, se non vogliono rendere inutile il voto di milioni di italiani che li hanno scelti e li sceglieranno nel segreto delle urne, i Cinque Stelle non possono più rifugiarsi nell’apprezzabile ma controproducente fortino della coerenza intransigente ma hanno il dovere di calarsi fino in fondo nella realtà amministrativa a cui sono stati chiamati.
Amministrare significa immergersi nella palude burocratica conservando la purezza iniziale ed acquisendo in corso d’opera la bravura di non impantanarcisi. Per rendere digeribile allo zoccolo duro dei militanti quest’indispensabile virata in materia di giustizia, i vertici pentastellati devono necessariamente sfatare il mito dell’equazione tra garantismo ed impunità ormai instauratosi nel dibattito politico soprattutto a causa dei pessimi esempi offerti da esponenti degli schieramenti maggiori.
Si tratta di un’operazione dolorosa, probabilmente non scevra di conseguenze ma che alla lunga consentirà al M5S di non auto implodere e di evitare il concretizzarsi della profezia di Pietro Nenni: “a fare a gara a fare i puri, troverai sempre uno più puro che ti epura”.
Nico Spuntoni