Sentiamo quotidianamente decantare le virtù democratiche del capitalismo nella sua versione liberista. Questo sistema garantirebbe la massima realizzazione dello “stato di natura”, attraverso il meccanismo della “libera concorrenza”. Si tratta in realtà della riproposizione, aggiornata alle esigenze della nostra epoca ,di una vecchia ideologia, risalente alla fine del Settecento, che si impone oggi mentre i suoi corifei proclamano sfacciatamente la necessità del “superamento delle ideologie”. Il liberismo trova peraltro a parole l’ambiente più idoneo al suo prosperare nell’ambito di un sistema politico “liberaldemocratico”, fondato su solenni dichiarazioni che parlano del rispetto dei diritti umani. Ma, nei fatti, ciò che conta per il liberismo è la “centralità dell’impresa”. Quest’ultima espressione è stata recepita abbondantemente anche dalla sinistra italiana “riformista” fin dagli anni Settanta del Novecento. Ne consegue che il potere di acquisto, l’assistenza sanitaria, l’istruzione, il lavoro, sono elementi secondari, certamente non ignorati, ma valutati in funzione dell’”impresa”. L’obiezione che viene mossa oggi a chiunque prospetti un’alternativa economica e politica riguarda però gli strumenti attraverso i quali il processo di cambiamento avverrebbe. Si fa osservare che il capitalismo liberista ha creato ormai apparati, strutture e tecnologie talmente complesse, ed oltretutto di carattere internazionale (e sovranazionale) da non rendere possibile un cambiamento che parti dal basso come nelle rivoluzione otto-novecentesche, una rivoluzione come quella avvenuta in Russia ai danni dei Romanov, al di là delle considerazioni ideologiche, sarebbe al giorno d’oggi irrealizzabile. D’altra parte chi vuole muoversi all’interno della società capitalistica per cambiarla rinunciando in partenza all’uso della forza, dovrebbe disporre realmente almeno di quegli strumenti “non violenti” che sono il diritto di voto e le elezioni politiche generali. In tal modo,potrebbe almeno riproporsi l’obiettivo di far scoppiare le contraddizioni insite nel sistema, che si assommerebbero nel tempo, finché il sistema stesso risulterebbe ingovernabile per le élites politiche al vertice, implodendo a causa della perdita di fiducia da parte delle classi popolari.
Nell’ Unione Europea di oggi (per limitarci all’esperienza che più ci è vicina) è evidente che nemmeno ciò è lecito. L’Italia costituisce, in tale ambito, un caso esemplare da almeno un ventennio. Con lo sconvolgimento del vecchio assetto dei partiti della Prima Repubblica provocato dall’inchiesta denominata “Mani Pulite”, fu impiantato un modello che intendeva ricalcare quello delle liberaldemocrazie anglosassoni. Ma se andiamo a ripercorrere le vicende degli ultimi due decenni ci accorgeremo che ai cittadini della Penisola non è concesso neanche un minimo spazio di determinazione del proprio futuro, poiché ogni volta che si delinea l’eventualità di una vittoria netta di uno dei due contendenti, ecco intervenire un “evento” che dimostra come in realtà gli schieramenti che in teoria dovrebbero contrapporsi siano profondamente complici nelle scelte di fondo economiche, sociali e finanziarie che si ispirano tutte,sempre,ai diktat del liberismo e dell’ atlantismo imperanti.
La nostra ricostruzione comincia dunque a partire da una ventina d’anni fa, dal 1994, quando cadde il primo governo Berlusconi per diverbi con la Lega di Bossi. Il Presidente della Repubblica dell’epoca, Oscar Luigi Scalfaro (1992-1999), impedì il ritorno alle urne, favorendo la formazione del primo ministero interamente “tecnico” della storia repubblicana, quello guidato da Lamberto Dini.
Non a caso fu allora che venne inferto l’iniziale, durissimo colpo al sistema pensionistico con una “riforma” approvata l’anno successivo a larga maggioranza con voti provenienti da tutti i settori del Parlamento, che introduceva il criterio contributivo. Già in quella fase fece la sua comparsa la tattica – che si affinerà come vedremo sempre più nel corso degli anni – delle ”scissioni” per consentire la formazione di esecutivi non legittimati dal giudizio dell’elettorato. Si trattò in quel caso del gruppuscolo dei “Comunisti Unitari” (chi se li ricorda oggi?), scaturiti da Rifondazione Comunista e poi rifluiti nel PDS (Partito Democratico della Sinistra ,originaria espressione del serpentone metamorfico da cui scaturirà il PD), che consentì per circa un anno e mezzo la sopravvivenza di Dini, il tempo necessario appunto per avviare lo smantellamento dello Stato sociale.
Lo stesso scenario si ripeté nel 1998, quando Rifondazione Comunista provocò la caduta del primo governo Prodi, ma la rapida costituzione del raggruppamento UDR (Unione Democratica per la Repubblica, destinata a sciogliersi nell’arco di otto mesi) capeggiato da Francesco Cossiga, nel quale confluirono alcune decine di parlamentari per la maggior parte eletti nel Polo per le Libertà, consentì a D’Alema di formare un nuovo governo senza passare per le urne. Con la giustificazione del “momento di grave crisi del Paese” che rendeva indispensabile “approvare la finanziaria”, come ebbero sfrontatamente a dichiarare i protagonisti della spregiudicata manovra di Palazzo. Ma soprattutto in quel momento era necessario, per il ceto politico asservito agli interessi atlantici, preparare l’adesione all’imminente guerra in Kosovo, spianando i dubbi della coalizione di “centrosinistra”, secondo i voleri dell’ “alleato” statunitense.
Mentore dell’operazione anche stavolta il presidente Scalfaro. Dunque un altro snodo decisivo della storia italiana recente fu determinato attraverso un’azione che rigettò ancora la consultazione popolare considerandola evidentemente una fastidiosa e pericolosa interferenza nel mondo dei “professionisti” della politica, con la giustificazione da questo momento in poi ripetuta in occasione di ogni gioco sporco che l’Italia è una repubblica parlamentare. Dopo i due inquietanti precedenti degli anni Novanta,è però dal 2010 che il processo degenerativo della democrazia italiana prende un’accelerazione dimostratasi finora inarrestabile. Tale fenomeno coincide con l’aggravarsi della crisi economica globale iniziata nel 2008 e con l’ascesa al Quirinale di Giorgio Napolitano (2006-2015). Quest’ultimo fin dal 1978 era considerato un interlocutore privilegiato da Washington (“My favourite communist” lo definirà Henry Kissinger, l’ ex-segretario di Stato americano), l’unico esponente del PCI cui l’amministrazione statunitense aveva all’epoca concesso di fermarsi con un visto insolitamente lungo oltreoceano, ufficialmente per sviluppare una serie di “scambi culturali”. Ciò che accade durante la sua presidenza segna, senza esagerazione, l’affossamento in Italia finanche di quella che un tempo si sarebbe definita “democrazia formale”.
Nell’autunno del 2010, per esempio, la gestione della crisi della maggioranza che sostiene il governo Berlusconi, seguita alla spaccatura in seno al Pdl (“Popolo delle libertà”) ,si svolge in maniera inusitata. In novembre il Pdl aveva attraversato una grave crisi ed era nei fatti imploso: i membri del governo che si riconoscevano in Gianfranco Fini avevano rassegnato le dimissioni dalle loro cariche e il governo era stato messo in minoranza da diversi voti di commissioni parlamentari, mentre veniva annunciata la nascita di un partito antagonista a quello del premier, Fli (Futuro e libertà). Condizioni più che sufficienti perché, mancando una maggioranza, Napolitano chiedesse a Berlusconi di salire al Colle a rassegnare le dimissioni, sciogliendo le Camere e indicendo nuove elezioni, che avrebbero stavolta certamente visto una netta affermazione del PD. Invece il presidente della Repubblica congela le istituzioni, impone una quarantina di giorni di pausa di riflessione per far decantare la situazione. Berlusconi capisce al volo e ne approfitta per contrattare con singoli esponenti di vari partiti il voto di sostegno al suo governo. In meno di un mese riesce così ad imbarcare i parlamentari di opposizione necessari. In particolare assurgono ai fasti delle cronache e del cabaret televisivo gli ex del partito di Antonio Di Pietro,’“Italia dei Valori”, Scilipoti e Razzi.
Ma il culmine arriva nell’estate-autunno 2011, quando il quarto governo Berlusconi, diventato una presenza troppo imbarazzante per i poteri sovranazionali della UE e di Oltreoceano, che ne decretano, perciò la fine attraverso i “mercati”, è costretto alla resa. Il presidente del Consiglio si reca allora al Colle per le dimissioni. Un comportamento rispettoso delle procedure democratiche, in un contesto così drammatico come quello venutosi a determinare, avrebbe voluto che al popolo italiano fosse consentito di esprimersi attraverso elezioni anticipate. Invece Napolitano dal Quirinale pilota la crisi, nomina un tecnocrate liberista, Mario Monti, senatore a vita il 9 novembre inviando un segnale inequivocabile: attorno a lui si farà un nuovo governo “tecnico”.
Il presidente inventa anche le “larghe intese”, sbocco finale di lunghi anni di “scontro” tra centrodestra e centrosinistra sulle vicende e gli interessi privati di Berlusconi, ma di complicità sulle scelte economico-sociali fondamentali, che determinano, peggiorandola, la vita quotidiana di milioni di Italiani. Quindi niente voto, niente ricorso al giudizio del popolo, sostegno di tutti o quasi i gruppi parlamentari ai “tecnici”, che infliggeranno -eseguendo gli ordini della tecnocrazia liberista della UE – altri tremendi colpi a ciò che ancora sta in piedi dello Stato sociale (a partire dal sistema previdenziale e dalla legislazione sul lavoro per arrivare all’inserimento del pareggio di bilancio nella Costituzione).
Quando nel 2013 Napolitano si degnerà di decretare il ritorno alle urne, Berlusconi avrà di nuovo avuto il tempo di recuperare, Pier Luigi Bersani incasserà la sua “non vittoria” e la palude liberista potrà continuare ad ammorbare la Penisola. Dapprima con l’intermezzo del fido bilderberghiano Enrico Letta, per arrivare all’ultima fase, la più distruttiva ,che ha come protagonista Matteo Renzi, divenuto capo del governo senza alcuna validazione democratica, senza alcuna consultazione, con il determinante supporto degli ennesimi scissionisti (quelli del Nuovo Centro Democratico scappati da Forza Italia, che già avevano sostenuto il suo immediato predecessore), nel terrore di un’affermazione dell’unico consistente movimento di opposizione, ossia i 5Stelle, mentre il disgusto dei cittadini per adesso trova un’ulteriore forma di espressione nell’astensionismo dilagante, che ha raggiunto livelli inimmaginabili ai tempi della tanto vituperata Prima Repubblica. Di Tsipras si può dire tutto il bene o il male che si vuole, ma non si può negare che gli manchi il coraggio di sottoporre al giudizio del suo popolo le scelte decisive (giuste o sbagliate che siano) che via via compie. Per questo la Grecia, nonostante tutto, conferma la definizione attribuitale di culla della democrazia. E l’Italia attuale? Quale denominazione le si addice meglio? Bara o fogna della democrazia?
Filippo Ronchi