La prima volta nel modo più clamoroso, insperato, forse insensato. È la prima volta del Portogallo, la prima Coppa vinta dalla nazionale lusitana.
Il clamore è legato al cammino dei rossoverdi, capaci di vincere il torneo riuscendo nell’impresa di vincere una sola gara nel corso dei 90 minuti, anche a causa della cervellotica nuova formula della manifestazione continentale. Tre pareggi nel girone eliminatorio (con Austria, Islanda e Ungheria), vittoria al 120esimo contro la Croazia, vittoria ai rigori contro la Polonia e unica vittoria al termine dei 90 contro il Galles. Nella finalissima è bastato un gol di Éder al minuto 109 a piegare un’imbarazzante difesa francese.
L’attaccante nativo della Guinea Bissau è il prototipo dell’insensato in questa vittoria. Una carriera da eterno incompiuto nelle squadre di ripiego del campionato portoghese, prima di una deludente esperienza all’estero tra Swansea e Lilla. Ed è pure il prototipo di quell’attaccante centrale, vero e proprio centroboa per usare un termine pallanotistico o pivot per mutarne uno cestistico, che ai portoghesi è sempre mancato.
Hélder Postiga, Pauleta o Hugo Almeida hanno provato, senza grandi risultati, a sopperire a questa mancanza, ad offrire a Figo, Rui Costa, Maniche, Simão, Nani, Deco, Moutinho, Quaresma e ovviamente Cristiano Ronaldo, un terminale offensivo almeno decente, per non dire presentabile a certi livelli. Eppure è stato proprio quello che meno degli altri tre (e non che ci volesse uno sforzo immane…) poteva sembrare affidabile a rompere la clamorosa maledizione “del 9”. Mossa tattica strepitosa del “santone” Fernando Santos, Éder ha messo in campo i suoi 189 centimetri per 80 chili, facendo a sportellate con i due centrali francesi Koscielny e Umtiti, fino all’azione da rete. Nell’Europeo che ha segnato la definitiva messa in soffitta del “falso nueve” e la rinascita del “vero nueve”, il pivottone da utilizzare per la spizzata, il gol finale di Éder è stato l’evento suscettibile di osservazione (il “fenomeno”) che ha dimostrato l’assioma di cui sopra.
L’Europeo portoghese è stato anche insperato. Basta scorrere la rosa dei futuri campioni per capire quanto, all’inizio della manifestazione, fossero lontanissimi dalle prime pagine: persi Fábio Coentrão e Danny per infortunio, le speranze di fare una bella figura poggiavano tutte sulle spalle del duo madrileno Cristiano Ronaldo e Pepe, oltre che su quelle del valenciano André Gomes. Le residue forze provenivano dal campionato di casa (8 elementi), dagli sparring partner del PSG nel campionato francese (5 elementi), da due compagni di Pellè al Southampton (José Fonte e Cédric Soares), dal “tedesco” Vieirinha e da quattro elementi che ormai giocano nelle periferie dell’Europa che conta (tre in Turchia uno in Croazia).
Con queste pozioni Santos ha saputo costruire in corsa una squadra quadratissima, asserragliata a difesa della porta di Rui Patrício e praticamente impenetrabile con un Pepe che, antipatico quanto volete, è veramente un signor difensore da “trincea”. Ma ha avuto anche tanto coraggio, Santos, che dopo le prime opache prestazioni ha cambiato molto: fuori il bollito Ricardo Carvalho per fare spazio a Fonte, out anche i due perni del centrocampo Moutinho e André Gomes per dare spazio alle scorribande del baby fenomeno Renato Sanches (già del Bayern Monaco) e del solido Adrien Silva. Le chiavi sono passate nelle mani, anzi nell’intelligenza tattica, di João Mário, la grande rivelazione dell’Europeo. Davanti oltre all’inamovibile totem Ronaldo, a Nani è stato dato il compito di cantare e portare la croce.
Ronaldo, dicevamo: stagione estenuante la sua, con reti e infortuni, ma anche la vittoria dell’undicesima Champions targata Real. Impossibile tirare il fiato in vista dell’Europeo (un po’ come nel 2014, dopo un’altra Champions vinta). Nonostante ciò, al netto di speculazioni giornalistiche che sono smentite dai dati, la carriera in nazionale di CR è tutt’altro che da buttare: una finale (2004) ed una semifinale (2012) agli Europei (oltre ai quarti raggiunti nel 2008); una semifinale (2006) ai Mondiali, oltre agli ottavi del 2010, sconfitto dalla Spagna poi campione. Oltre naturalmente a quest’ultimo titolo, vissuto a corrente alternata e in un inedito ruolo. Male contro l’Austria, benino contro l’Islanda (anche se pesa il rigore sbagliato), benissimo contro l’Ungheria, quando guida i compagni ad una clamorosa qualificazione con due gol e un assist, anonimo ma decisivo contro la Croazia, male contro la Polonia, molto bene contro il Galles. Eliminato contro la Francia dal calcione di Payet che ha messo fine dopo poco più di 20 minuti alla sua finale più attesa.
Ma è in quel preciso momento nel quale Cristiano ha smesso i panni del calciatore di successo per diventare un mito globale dello sport. Acciaccato, ginocchio in fasce con il rischio di interessamento dei legamenti, quindi con potenziali grossi rischi per la carriera (ma se avesse pensato solo ai soldi, come qualcuno maligna, non avrebbe dovuto sedersi comodo in panchina e/o tribuna?), ha affiancato Santos in tutti i tempi supplementari diventando un diavolo della panchina, capace di incitare, motivare e scaricare la tensione dei compagni. Si è comportato da leader totale, anzi quasi totalizzante. Ha accentrato su di sé l’attenzione, diventando il centro dell’attrazione mentre la gara proseguiva senza sussulti. Ha svuotato la mente di chi stava giocando con la maglia rossa e ha dato ai suoi 11 compagni la forza necessaria per raggiungere l’obiettivo. A 31 anni, da capitano del Portogallo campione, Cristiano ha raggiunto quella maturità caratteriale da leader che ad altri (non lo cito, ma tutti sanno a chi mi riferisco) è sempre mancata.
Fra due anni in Russia, il Portogallo porterà una nazionale ancora molto giovane (Cédric Soares 24 anni, Raphael Guerreiro 22, João Mário 23, William Carvalho 22, André Gomes 22, Renato Sanches 18), con almeno due potenziali crack (Sanches e Mario) ma già forte di un risultato incredibile. Sarà di nuovo la squadra rivelazione?