Prova documentale
"22 giugno 1941. Il Volkischer Bobachter annuncia l'attacco all'URSS. Occhiello: si abbatte la spada tedesca. Titolo: LA RISPOSTA AL TRADIMENTO DI MOSCA. Sottotitolo: da domenica mattina si combatte da Capo Nord al Mar Nero"

Un “urlo disumano”

Pressoché tutti gli storici del Terzo Reich hanno optato per l’ipotesi “gesto individuale, all’insaputa di Hitler”. Tranne pochi, che però non sono di second’ordine. E colpisce il fatto che non hanno detto che “forse”, che “probabilmente” Hitler sapesse o addirittura avesse organizzato; lo hanno dato per assolutamente certo. Per esempio, A. Hillgruber, nella sua “Storia della seconda guerra mondiale”, afferma “senza se e senza ma” il volo di Hess «avvenne col consenso di Hitler».

In effetti, gli elementi a favore dell’ipotesi “Hitler nulla sapeva” non sono né pochi, né irrilevanti. A iniziare dalla stessa reazione immediata del Fuhrer alla notizia del volo, che conosciamo per pura coincidenza e grazie a una testimonianza assolutamente attendibile, quella di Albert Speer.

Speer, nelle sue “Memorie del Terzo Reich”, racconta che, quell’11 maggio 1941, era in attesa nell’anticamera dell’ufficio di Hitler nella sua residenza di montagna (il Berghof), quando arrivarono i due aiutanti di Hess incaricati di portare al Fuhrer la lettera del suo “Stellvertreter”. Speer li fece passare, e pochi minuti dopo «esplose un urlo disumano, insensato, cui seguirono le parole “Bormann! Presto, dov’è Bormann?”».

Bormann in quel momento era una sorta di “segretario facente funzioni” del partito; e fu quello che, nella lotta intestina tra i capi del Terzo Reich, riuscì ad approfittare meglio del gesto di Hess: infatti, già il 14 Hitler lo nominò “capo della cancelleria del partito”, in sostanza suo segretario personale e vero sostituto di Hess.

Hitler, racconta Speer, cercava affannosamente Bormann affinché questi mettesse contatto lui con tutti gli altri capi del Reich (Himmler, Ribbentrop, Goebbels, Goering) al fine di cercare di capire cosa fosse avvenuto, perché, e quindi elaborare una strategia di pubblica spiegazione e di risposta all’eventuale reazione inglese. Ciò che, dunque, farebbe pensare che davvero Hitler nulla sapesse del gesto di Hess.

Ipotesi avvalorata dal Diario di Goebbels, dove il caso viene descritto come un’autentica tragedia. Al 13 maggio, Goebbels annota che «la sera (del 12, n. d.r) arrivano notizie terrificanti … un colpo duro, quasi insopportabile … Il Fuhrer è sconvolto». Il 14, scrive: «ieri, altra giornata pazzesca … Caos totale … Il Fuhrer è molto amareggiato». Il 15: «il caso Hess ha causato danni spaventosi … In patria il tracollo è completo … soffro acutamente per la vergogna del caso Hess». Solo il 16, «l’affare Hess è sempre l’argomento principale, ma comincia a perdere il suo carattere drammatico». E finalmente, il 18 Goebbels annota: «il caso Hess è alla fine … chiudo il caso. Privo di interesse».

Insomma: se viste senza “dietrologia”, queste testimonianze farebbero indiscutibilmente propendere per l’ipotesi che Hitler non sapesse niente. Ma sappiamo bene che Hitler, dovendo e volendo, sapeva essere un grande attore nel simulare collere inaudite. Mentre quelle vere, non meno invasate, non erano mai senza conseguenze per i destinatari: e nel caso di Hess, come si è visto, stranamente Hitler non assunse il suo tipico atteggiamento di proclamare a destra e a sinistra che Hess dovesse pagare il suo gesto. Anzi. Ha raccontato l’autista di Hitler che, nel marzo del ’45, mentre stava accompagnando Hitler in uno dei suoi ultimi viaggi, improvvisamente il Fuhrer iniziò a parlare di Hess, con un tono «un po’ malinconico, un po’ rassegnato, un po’ ironico, ma con infinito affetto». Conoscendo la personalità di Hitler, una testimonianza che vale quanto (se non più) di un documento scritto: e che fa di nuovo tornare all’ipotesi che sì, Hitler sapesse.

Viceversa, il Diario di Goebbels, è una indiscutibile conferma che, se pure Hitler avesse approvato, o addirittura ideato (e questo è davvero assai poco probabile) il piano del suo Stellvertreter, non ne ha mai parlato nemmeno con quello che, assieme a Hess e Speer, era il suo più stretto “confidente”: cioè, appunto l’abilissimo Ministro della Propaganda Paul Goebbels. E non è che di Goebbels non ci si potesse fidare, in quanto a fanatica devozione: basti pensare che le cinque figlie e il figlio portavano tutti un nome che iniziava con la “H”…

Un’ultimissima annotazione indirettamente a favore dell’ipotesi “Hitler sapeva”. Sempre Speer racconta che, alla fine del ’44, Hitler, tornando sul caso, avrebbe detto che a guerra finita (e che ancora pensava di poter vincere), avrebbe chiesto agli inglesi la consegna di Hess per impiccarlo. A parte che ciò contraddice il racconto sopra riportato dell’autista, è significativa cosa rispose Hess a Speer quando glielo raccontò, durante la comune detenzione a Spandau (Speer fu condannato a vent’anni, interamente scontati). Hess non ne fu per niente turbato: «Hitler si sarebbe riconciliato con me. Ne sono più che sicuro».

Insomma: dalla parte tedesca, gli elementi contrari e a favore dell’ipotesi “Hitler sapeva” alla fine si equivalgono quasi perfettamente. Forse, quello che però fa propendere per l’ipotesi che Hitler sapesse è questo: è credibile che Hess, con la devozione totale fino a quel momento mostrata verso il suo Fuhrer, prendesse un’iniziativa di quel genere, di cui non fosse stato assolutamente certo che non andava contro le idee di Hitler? Personalmente, chi scrive pensa che non sia credibile.

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Manifesto di propaganda nazista destinato alla Francia occupata

Intermezzo. Le reazioni dell’alleato italiano

E infatti, chi non credette per niente alla versione ufficiale tedesca furono Mussolini e soprattutto suo genero e ministro degli esteri Ciano. Mussolini, poi, come suo solito, quando si trattava di Hitler, non mancò di trarne motivo di (un po’ meschina) soddisfazione: dato che le cose per lui andavano male, anzi malissimo, che per una volta anche Hitler si trovasse in imbarazzo (come racconta Ciano) «ne era contento, perché vale ad abbassare le azioni tedesche presso gli italiani».

Ciano, che era sì superficiale e vanesio, ma non fesso, nel suo Diario ha annotato qualche osservazione assai acuta sul caso. Anche lui, è insospettito dal fatto, singolare, che i tedeschi si affannino, senza ancora alcuna dichiarazione ufficiale inglese, a dimostrare che Hess è un matto ma non un traditore (13 maggio 1941). E anche lui non può fare a meno di notare quanto i comunicati tedeschi siano «confusi e reticenti» (15 maggio).

Dal che, ne dedusse che tale versione nascondeva qualcos’altro; e che perciò Hess sicuramente «non parlerà» e che «qualunque cosa venga detta o stampata a suo nome è falsa». Sottinteso: da parte tedesca, si dirà che ufficialmente è falsa, ma in realtà non è così.

E fin qui, Ciano e Mussolini una qualche ragione ce l’avevano. Dove sbagliavano completamente, come al solito sopravvalutando la posizione che Hitler dava all’Italia nella sua strategia geopolitica, era sul “perché” i tedeschi stessero tramando qualcosa alle loro spalle. Non sapendo assolutamente niente sui preparativi in corso dell’attacco all’URSS, pensarono che le ambiguità tedesche fossero dovute al fatto che Hitler volesse semplicemente concludere una pace separata con l’Inghilterra a prescindere dall’ Italia. Come se, in altre parole, Hitler tenesse (e temesse) talmente in considerazione l’Italia da dover architettare tutta la storia del volo, della follia del suo vice, solo per non dispiacere a Mussolini.

“Il mondo tratterrà il respiro”

Ovviamente, né a Hitler né a Hess, nelle ragioni che motivarono il volo, importava assolutamente niente di come avrebbe reagito l’Italia. Il loro problema era immensamente più grande, più serio e più reale.

Sapevano che l’imminente guerra con l’URSS non sarebbe stata una guerra “come le altre”. Sarebbe stata, comunque fosse andata, qualcosa che la Storia non aveva mai visto. E per una volta, il gigantismo ideologico-geopolitico-militare di Hitler non esagerava affatto. Già solo i numeri erano da brividi: complessivamente, tra russi e tedeschi, stavano per scannarsi quasi otto milioni di uomini: mai prima, nella Storia, s’erano affrontati due eserciti così immensi. Con un dispiegamento di mezzi che, per quantità e qualità, nessun altro esercito poteva vantare: circa 3.000 carri armati a testa, tra cui i micidiali Tiger (per i tedeschi) e i mastodontici (per l’epoca) T 34 e T 35 sovietici: che erano e rimasero i migliori carri mai costruiti in assoluto durante tutta la guerra. Per fare un paragone: la Francia era entrata in guerra, nel ’39, con sì e no un migliaio di carri il cui tonnellaggio era al massimo la metà di quello medio sovietico; l’Italia, al 10 giugno, aveva un paio di centinaia di motorette pomposamente e impropriamente dette “carri armati” da meno di dieci tonnellate, la cui “corazzatura” bastava una mitragliatrice a perforarla.

Ma non era solo quest’aspetto a rendere unico e imparagonabile il conflitto che stava per iniziare. Quando s’è detto che otto milioni di uomini “stavano per scannarsi” non è retorica. Nella “visione” (nel duplice senso di concezione e di “immaginazione alterata”) di Hitler, la guerra all’Est era guerra di ideologie, bolscevismo contro nazismo; guerra geopolitica (i “grandi spazi” dell’Est, mira fin dai cavalieri teutonici dell’espansionismo tedesco); guerra di razza (la Germania avamposto dell’Occidente contro il nemico asiatico). Insomma: per davvero, mille anni di storia stavano per trovare il loro esito finale.

Non a caso, nelle direttive di Hitler sull’attacco, si insisté più volte che quella che stava per iniziare, sarebbe stata una guerra del tutto differente da quella del ’40 all’Ovest. Era due concezioni del modo e della vita che si affrontavano. Per cui: niente, e mai, cameratismo tra avversari, nessun rispetto per le convenzioni. Doveva essere una guerra di sterminio e distruzione. Esempio quanto mai eloquente: delle due città simbolo dell’URSS, Mosca e Leningrado, Hitler non ne aveva previsto l’occupazione. Ma la distruzione totale, tramite l’aviazione. Di esse e dei loro abitanti.
Hitler, dunque, ebbe assolutamente ragione a dire che, alla notizia dell’attacco, il mondo avrebbe trattenuto il respiro.

Il problema, per lui, era che però questa grandiosità cozzava contro uno dei suoi principali dogmi ideologico-politici: la Germania non doveva ripetere l’errore del 1914, cioè combattere su due fronti; né, nel suo (assurdo) dogma assoluto politico-razziale, era concepibile che i due grandi popoli nordeuropei, inglesi e tedeschi, non combattessero insieme il nemico totale, il bolscevismo asiatico. Nel Mein Kampf aveva battuto e ribattuto su questo tasto che, in sostanza era: a te il dominio sui mari, a me sul continente (ma ridammi qualcosa delle colonie perse nel 1918).

E poiché, com’è noto, quando si metteva una cosa in testa non c’era verso di farlo recedere, Hitler, per così dire, “in buona fede”, non riusciva a capacitarsi che l’Inghilterra non (lo) capisse, che continuasse la guerra. Convinto che la sua visione fosse la verità sul mondo, insomma, quasi si dispiaceva per gli inglesi che non capivano che dovevano trovare un accordo in quanto “popoli razzialmente fratelli”.

La colpa, s’era convinto, era della testardaggine di Churchill (ovviamente ispirata e rafforzata dagli ebrei); dunque, bisognava o farlo ragionare o (parafrasando “Apocalypse Now”) “porre fine al suo comando” con una missione segreta. Cioè, fare in modo che qualcuno, inglese, accondiscendesse alle proposte tedesche e poi, magari, facesse lui il “lavoro sporco”: togliere di mezzo l’ostacolo Churchill, facendolo tornare al suo hobby della pittura. Tutto molto alla Hitler, insomma.

Per questo Hess si scapicolla, rischiando la vita, fino in Scozia: era convinto (del tutto fantasiosamente) che quel duca di Hamilton presso cui voleva atterrare, condivideva segretamente la visione sua e di Hitler; per cui, una volta lì, contava di o trattare da pari a pari con il governo inglese (era pur sempre il vice di Hitler; dunque, si aspettava interlocutori al suo rango); o, in alternativa, convincere Hamilton il quale a sua volta (nella fantasia di Hess e/o di Hitler) poteva fare in modo di far cadere Churchill.

Ed è proprio da questa e su questa (contorta, ma molto nazista) escogitazione politico-razziale-complottistica, oltre che dalla loro reazione ambigua, reticente almeno quanto quella tedesca, al gesto di Hess, che sono nati i sospetti per cui, qualcuno, tra gli inglesi, durante i colloqui con Hess, più o meno seriamente, abbia trovato, o abbia tentato di far trovare, accettabili le proposte di Hess. O che (forse) valeva la pena di non accantonarle subito. In fondo, Hitler non richiedeva la resa dell’Inghilterra, né di occuparla come era accaduto per la Francia.

E soprattutto, stava per svenarsi, da solo, contro il gigante sovietico che certo non stava più simpatico agli inglesi di quanto stesse a Hitler. Possibile che davvero nessuno in Inghilterra non ci fece un pensierino, o più di un pensierino, su un’offerta (per loro) tutto sommato allettante?

Ancora qualche giorno e lo vedremo insieme.