“È una grave ferita per Genoa, per la Liguria e per l’Italia”. Un anno fa il premier Giuseppe Conte, in carica da soli due mesi, commentava così il crollo del Ponte Morandi di Genova. Per quanto ci riguarda la tragedia di Genova del 14 agosto del 2018 sancisce ben più di una ferita inflitta al nostro paese. Quella data va ricordata piuttosto come il giorno del decesso della nostra cara Italia, dopo trent’anni di avvelenamento.
“Una tragedia del genere è inconcepibile in un sistema moderno come il nostro, in un Paese moderno”. Prendendo a prestito di nuovo le parole di Conte, esattamente un anno fa, è una frase che starebbe bene come epitaffio della nostra lapide, la lapide di un paese una volta glorioso.
La circostanza del crollo del ponte autostradale è stato anche il primo banco di prova del governo uscente, quello sedicente del cambiamento. Attorno all’opportunità di ridiscutere la privatizzazione della rete autostradale italiana proposta dal Movimento Cinquestelle l’alleato di governo della Lega ha sempre risposto picche. Secondo il sottosegretario Giorgetti (è lui il leader della Lega o Salvini?) un ritorno alla gestione statale non garantirebbe efficienza.
Dopo vent’anni di privatizzazioni nel segno delle ricette neoliberiste il partito più sovranista del paese e forse d’Europa non riesce ad avere le idee chiare sul da farsi e lascia che le autostrade italiane restino in mano a dei privati, magari perché i Benetton sono dei vecchi contributori della Lega? Qual è dunque l’obiettivo di questo sovranismo alla padana, che ha rinunciato anche alla lotta all’Europa Unita, salvo poi rilanciarla come un feticcio, quando si cerca qualche consenso in più, e che ora vuole staccare la spina a un governo nato da appena un anno, per tornare presumibilmente a governare con coloro che stanno nel Partito Popolare Europeo come Silvio Berlusconi?
Che la rivoluzione sovranista di Salvini fosse un bluff lo si era già capito da un pezzo, confinato per circa una ventina d’anni al comune di Milano, il “Capitano” ha fatto opposizione per cinque anni al Pd barcamenandosi tra posizioni spesso contraddittorie: dall’anti-imperialismo filorusso che ricorda un po’ la Lega degli anni ’90 ai discorsi fallaciani da destra neocon, dal putinismo all’odio per i cinesi, passando per il trumpismo e l’elogio delle guerre israeliane.
Ma ad un personaggio che era più che altro famoso per il coretto contro i napoletani cantato in barca e per le festicciole tutto ciò è perdonabile. Ciò in cui è mancata veramente la “nuova” Lega è il coraggio delle idee che non è mancato alla sua collega d’area Marine Le Pen. Il Front National ha affrontato Macron su ogni piano, da quello sociale a quello economico, non ha lesinato in piena campagna elettorale critiche all’euro e alle ricette economiche di Macron che avrebbero colpito il lavoro. Lo ha affrontato a testa alta con il coraggio delle proprie idee e a testa alta e con coraggio ha perso. Salvini, da furbone all’italiana qual è (altro che Padania), ha ben osservato la debacle di Marine (sconfitta nel risultato ma non nei numeri di partito), per prenderne nettamente le distanze.
La Lega dal 2017 in poi è regredita nel solito becerismo populista-conservatore del vecchio leghismo, l’arma principale di Salvini, oltre la vana promessa di realizzare la flat tax è stata, sempre e solo la questione migratoria. Una tendenza che è cresciuta esponenzialmente fino all’ultimo mese di campagna elettorale, alle elezioni del 4 marzo, quando Salvini con un paese che cerca di uscire da quasi dieci anni di crisi speculava sulla gravissima vicenda di Macerata e di Pamela Mastropietro. Inoltre dopo anni di punzecchiature a Silvio Berlusconi, si unisce in coalizione con Forza Italia per poi formare un governo senza gli alleati di coalizione. Non bastano l’iperattivo prof. Borghi e la candidatura dell’economista Bagnai per dare alla Lega una caratura che non ha.
L’ormai ex alleato di governo non è così differente dal Carroccio, perse le elezioni europee del 2014, il Movimento a trazione Di Maio ha puntato tutto sulle battaglie contro la casta e contro gli sprechi, per di più rivolgendosi chiaramente al mondo delle accademie e dei tecnici. Ma il punto, ovvero la capacità di rilanciare l’economia con nuovi investimenti, un’idea industriale vincente e la capacità di affrancarsi da lacci e lacciuoli europei non viene mai preso in considerazione: sono troppi i comportamenti ambigui del Cinquestelle in Europa, che più di una volta ha strizzato l’occhio a formazioni del Parlamento europeo tutt’altro che popolari. Al movimento fondato da Grillo e Casaleggio, resta comunque il merito di aver almeno provato a dare qualche diritto in più ai lavoratori con reddito di cittadinanza e salario minimo, ma guai a toccare il Jobs Act di Renzi: questo governo non ci ha pensato neanche per un secondo.
Che si tratti di vecchi o nuovi partiti di nuovi o vecchi leader la politica italiana da un pezzo non produce statisti in grado di proporre un progetto per il nostro paese, anche a costo di essere vinti politicamente. Più che a governare e amministrare l’Italia i partiti che si avvicendano all’esecutivo sono interessati a guadagnare un elettore in più sparando nel mucchio e facendo propaganda 365 giorni su 365.
A un anno dall’incredibile crollo del Ponte di Genova, la Lega stacca la spina al governo dopo solo un anno di esecutivo, l’altro partito di maggioranza ha come priorità quello di diminuire la rappresentanza democratica dei cittadini italiani tagliano il numero di parlamentari, non sono poi tanto diversi dagli altri, da loro accusati di essere troppo affezionati alla poltrona.
A volte viene il dubbio se il vero problema siano loro o l’italiano che come un personaggio beckettiano aspetta il cambiamento, la risalita, la rinascita, affidandosi a qualche nuovo e rivoluzionario Godot come Vladimir e Estragon, ma continua a non muoversi dalla scena.