Dello sciopero dei lavoratori di Amazon si è parlato tanto, tantissimo.
Il giorno del Black Friday, tradizionale festa consumistica che affonda le sue radici (come la buona parte delle ricorrenze del consumo e del denaro) negli Stati Uniti d’America, i lavoratori hanno incrociato le braccia, facendo capire al mondo chi fa funzionare gli ingranaggi di questo sistema ben oliato.
Si è parlato a proposito e a sproposito di questo sciopero: si sono raccontate le voci di chi lavora nell’azienda, al coro si sono unite anche quelle di chi, pur lavorando in altre aziende, subisce delle condizioni lavorative pessime ed ai confini dei diritti.
Già, i diritti. Siamo nel 2017 e quando si parla di diritti dei lavoratori, nelle menti di tanti vengono rievocate immagini di schiere di lavoratori straccioni che protestano a gran voce: tutti comunisti, tutti socialisti, un Terzo Stato di Pellizza da Volpedo dei giorni nostri.
Sono alcuni dei preconcetti che, nell’epoca del consuma tutto quello che vuoi, in tanti continuano a nutrire.
Viviamo in un’epoca di liberismo estremo, che ci piaccia o meno. Lo scheletro del sistema dei diritti dei lavoratori sta ancora in piedi, anche se rosicato qua e là da normative come il Jobs Act, o come la legge che ha completamente liberalizzato gli orari dei negozi, attività di somministrazione di alimenti e bevande e altri esercizi commerciali.
Si tratta quindi di uno scheletro sempre più debole sia per il minore potere dei sindacati, che sembra sempre pronto al “patteggiamento”, e soprattutto per la mancanza di solidarietà da parte dei consumatori stessi. Lavoratori a loro volta, si presume, eppure troppo spesso mancanti di quell’empatia necessaria che è la base della solidarietà nella lotta per i diritti di tutti.
Aprono i negozi per il Black Friday, e frotte di consumatori impazziti si riversano nelle sale, riempiendole di calore umano e svuotando gli scaffali.
Il consumo è parte integrante della vita quotidiana, ma il consumismo ci sta distruggendo: perché nell’equazione del consumismo, i lavoratori sono solamente variabili sostituibili. Sono quelli che, come un’ex dipendente dei magazzini Passo Corese, si lamentano di aver fatto cinque notti di seguito in piedi per il lavoro.
Sono quelli che si lamentano della precarietà, sono i lavoratori dei centri commerciali che vogliono tenere aperto anche a Natale e che subiscono l’intimazione sottovoce da parte dei titolari di non aderire a nessuna petizione contro l’apertura.
Sono i nuovi schiavi con il ricatto dello stipendio, come se si trattasse di una elargizione di beneficenza e non della giusta paga per un lavoro spesso troppo ai confini dell’illegalità.
Sarebbe facile dire che Amazon riduce i lavoratori ad un numero: forse è più corretto dire che oggi i lavoratori sono merce interscambiabile. Fuori uno, dentro l’altro: e a fronte delle politiche di un governo che si dice di centro-sinistra ma che offre le spalle alla liberalizzazione del lavoro e delle aperture dei negozi, c’è poco che un operaio con famiglia possa fare per rivendicare i suoi diritti.
La base della giustizia lavorativa è quindi solo la solidarietà fra lavoratori e consumatori: gli uni sono allo stesso tempo gli altri, ed è per questo motivo che non si può accettare che vengano messi in saldo i diritti dei lavoratori.
Deve nascere una coscienza, non di classe, ma di lavoratori: ci si deve schierare tutti insieme dalla parte dei diritti, perché non vinca chi ha la voce grossa ed il fatturato importante.
La vittoria dei lavoratori di Amazon è semplicemente il piccolo segno che qualcosa, dopo essere arrivati ai limiti della disperazione, sta per scattare.
E quel qualcosa, quei migliaia di lavoratori che il giorno del Black Friday incrociano le braccia ed alzano la testa, sono mille volte più importanti del nostro pacco di Natale ordinato su Internet e che arriverà in ritardo.
Ben venga, quindi, nella giornata degli acquisti folli, uno sciopero di massa: se il pacco in ritardo è l’unico modo di attirare l’attenzione dei media e dei consumatori su un problema sociale, ne vale assolutamente la pena.
Grazia Roversi