Francia

Nell’autunno del 2017, subito dopo le elezioni presidenziali francesi di maggio e quelle legislative di giugno, l’Opinione Pubblica commentava in un suo articolo le sorti dell’Europa, affermando che queste si sarebbero ancora determinate in Francia, nonostante la totale capitolazione di Marine Le Pen, la quale addossò la sconfitta alla sua battaglia contro la moneta unica, non compresa dai francesi.

Inoltre, subito dopo le elezioni legislative, notavamo che il reale vincitore della tornata elettorale non era il partito del presidente Macron assieme ai centristi, seppur arrivati teoricamente primi, ma fu piuttosto il cosiddetto “partito dell’astensione”, attestatosi al 51,29% al primo turno. In sassant’anni di voto non si era mai vista un’astensione così elevata.

Nel nostro articolo di quel settembre, commentavamo il nuovo volto della Francia, che assomigliava tanto ai precedenti, se non peggio. Una carriera già preannunciata, con una formazione nella scuola politica governativa francese, esperienze di lavoro in casa Rothschild, pupillo di Jacques Attali, una gioventù politica nel partito socialista (seppur con tendenze centriste) che lo portarono a diventare presto Ministro dell’Economia durante il governo Hollande. Un volto giovane sì, ma già veterano dei “poteri forti” di Francia, calato dall’alto con un nuovo movimento, En Marche!, in stile quasi populista o anti-establishment (né di destra e né di sinistra; quasi alla Cinquestelle), ma fortemente europeista sia negli ideali che nell’applicazione politico-economica. Con questa formula Emmanuel Macron riuscì a battare il “fascismo” di Marine Le Pen e a salvare la Francia.

Eppure avevamo il sentore che non sarebbero state rose e fiori, che la vittoria di Macron sarebbe stata effimera e che presto i francesi si sarebbero pentiti della loro scelta. Bastava attendere i primi provvedimenti europeisti, ma impopolari, come la nuova loi travail, che avrebbe tolto diritti sociali ad un popolo che dagli anni ’70 ad oggi di diritti di questo genere ne ha conquistati tantissimi.

L’apparato statale francese è davvero imponente e i francesi ne vanno orgogliosi. Era davvero difficile pensare che i francesi avrebbero sopportato a lungo tagli alla spesa pubblica assieme ad aumenti di tassazione ed accise sulla benzina.

Eppure la Francia è una di quelle nazioni che, secondo l’Unione Europea, avrebbe tanto bisogno di riforme. La disoccupazione è al 9,3% (dati di agosto 2018), in discesa rispetto al 10% del 2015, il debito pubblico è al 97%, in salita rispetto al 2011 quando era al 87,8%. Insomma, una situazione abbastanza simile alla nostra, almeno dal punto di vista occupazionale, e con un debito pubblico più basso, tenuto tale anche dall’attuazione di politiche più espansive rispetto alle nostre, con un deficit mai andato sotto il 3% sia prima che dopo la crisi degli spread (una tendenza mutata solo negli ultimi anni). Ma a differenza nostra, dato più significativo, la bilancia commerciale francese è in negativo.

Appena il governo francese ha tentato di tenere il deficit di bilancio sotto i limiti di Maastricht, i francesi hanno avuto una sensibilità maggiore a notare gli effetti delle politiche di austerità e sono scesi in piazza. Dagli scioperi e le proteste per i rincari sul carburante, i cui prezzi paradossalmente  sono più bassi dei nostri, il Paese d’oltralpe è rimasto bloccato per diverse settimane. Alle proteste dei trasportatori, si sono unite quelle di autonomi, artigiani, piccoli imprenditori e semplici operai che hanno trovato una forma d’espressione indossando il giubbotto catarifrangente che tutti teniamo obbligatoriamente in auto. Un simbolo del mondo del lavoro quindi…ed ecco i gilet jaunes.

La protesta, partita dal mondo del lavoro, si è estesa anche alla politica ed è quindi stata appoggiata da varie parti sia provenienti dalla sinistra che dalla destra. Non solo esponenti della sinistra melanchonista e della destra lepenista, ma anche oltre gli estremi. Il movimento si è organizzato, si è dato dei capi ed un proprio programma politico.

Il presidente francese ha ceduto a molte delle richieste e per attuarle ha dovuto rinunciare ai propositi di tenere il deficit sotto il 3% (forse arriverà quasi al 4%), ma che comunque era stato stimato al 2,8% a causa dei rallentamenti nell’economia mondiale.

Insomma una protesta di popolo è riuscita a cestinare le regole europee e dalla Commissione Europea non hanno potuto battere ciglio. Pierre Moscovici, forse perché francese o forse un po’ impaurito, ha accettato di buon grado lo sforamento francese, motivando con un blando “la Francia può, l’Italia no…”.

Eppure questo risultato importante non ha fermato la protesta dei gilet gialli, che è continuata e forse si è perfino radicalizzata, tanto da assumere posizioni molto euroscettiche e sovraniste. Ad un certo punto, un’indiscrezione di qualche tempo fa fece trapelare che i gilet gialli volevano far dimettere il Primo Ministro Édouard Philippe per sostituirlo con il generale Pierre de Villiers, dimessosi egli stesso dalla carica di Capo di Stato Maggiore nell’estate del 2017 per polemiche col Presidente Macron sul budget della difesa, che veniva ridotto.

Ora, la famiglia de Villiers è molto attiva politicamente, schierata fortemente a destra. Un fratello del generale, Philippe, ha un passato tra i gollisti, abbandonato presto per aderire a formazioni più nazionaliste e sovraniste. Nel 1992 votò contro la ratifica del Trattato di Maastricht.

Un’indiscrezione forse falsa, o che forse non si è attuata concretamente, ma che può testimoniare l’interessamento dei settori politici extra-parlamentari verso la protesta dei gilet jaunes, soprattutto vista da destra. Persino organizzazioni come l’Action française e lo stesso Conte di Parigi, Enrico d’Orléans, pretendente unionista alla corona di Francia e molto attivo su twitter, seguono con molta attenzione gli eventi e danno il pieno appoggio ai manifestanti.

Ovviamente, come abbiamo detto, il movimento non è affatto omogeneo e accanto ai monarchici manifestano anche i comunisti che portano in piazza le ghigliottine per fare paragoni con la rivoluzione del 1789. Ma la maggior parte delle persone è composta da quella maggioranza silenziosa che non va a votare da decenni e che alle legislative di due anni fa si è attestata al 51%.

E’ una nazione, quella francese, che è in cerca di nuove rappresentanze politiche e nuovi assetti istituzionali. Se la protesta dei gilet gialli dovesse continuare, o dovesse mutarsi in altro, potrebbe determinare non solo  un cambiamento politico, con il fallimento di Emmanuel Macron, ma determinerebbe anche forti cambiamenti nelle Istituzioni, con una nuova Costituzione ad esempio.

Siamo di fronte a un movimento del tutto nuovo e totalmente imprevedibile. Il vuoto politico emerso negli ultimi anni difficilmente potrebbe essere colmato da uno dei vecchi attori della politica francese e la stessa V Repubblica francese potrebbe entrare in crisi.

Questa ricerca di identità nazionale e di volontà di riprendere le redini della politica e dell’economia nazionale, potrebbe essere una spina nel fianco per le stesse Istituzioni europee. Se le posizioni sovraniste ed euroscettiche dovessero radicalizzarsi e prevalere, vedremo dei cambiamenti sia in Francia e sia in Europa. Se la Francia dovesse perdere la sua vocazione europeista e l’asse franco-tedesco dovesse vacillare, l’Unione Europea sarà costretta a mutare la sua linea politica, abbandonare almeno l’austerità e cambiare i suoi trattati. Altrimenti rischierebbe il collasso, soprattutto se il modello francese venisse esportato anche altrove.

Le elezioni europee di primavera saranno un primo banco di prova per questo movimento popolare. Se dalla rivolta sapranno mutarsi in proposta politica, e se gli appoggi avuti finora dovessero continuare a esserci, allora potremmo davvero assistere a qualcosa di interessante. Il presidente francese, governerebbe con una maggioranza che non rispecchierebbe il paese reale e sarebbe probabilmente costretto alle dimissioni, sempre che i suoi tentativi di concedere qualcosa ai manifestanti non dovessero funzionare.

Ma a tutto ciò si ricollega anche il tema immigrazione. Prendiamo ad esempio l’ultimo caso legato alla nave Sea Watch: gli ospiti della nave Ong provenivano in larga parte dall’Africa francofona, dove non ci sono guerre, né teoricamente problemi particolari. Nessun problema tranne uno: la moneta neo-coloniale, il Franco CFA, tenuto a cambio fisso con l’Euro, non convertibile e completamente gestita dalla Banca di Francia e dalla BCE. A causa di questa moneta troppo forte per un’economia debole come quella africana (che impedisce di produrre prodotti in loco a favore quindi delle importazioni), nega prospettive di futuro per i giovani africani che rischiano il viaggio disperato verso l’Europa. Anche per l’Africa il cambiamento deve partire da un mutamento di paradigma in Francia. Ne beneficerebbe l’Europa intera.

Non dimentichiamoci inoltre che i problemi politici e quelli economici vanno ad aggiungersi a quelli riguardanti la sicurezza e il terrorismo: i fatti di Strasburgo ce lo hanno dimostrato (ma ricordiamoci pure i disordini post-vittoria Mondiale). Se non risolti in tempo, questi problemi potrebbero portare la Francia a diventare una polveriera pronta ad esplodere. Ma questi potranno essere risolti soltanto trovando chi debba prodigarsi a risolverli.

Insomma, non sappiamo ancora come andrà a finire, ma i probabili scenari che potrebbero aprirsi sono davvero tanti e imprevedibili. Questo basta a farci comprendere che sarà ancora la Francia a determinare le sorti dell’Europa nel prossimo futuro.

 

Marco Muscillo