In questi giorni abbiamo assistito alla solita scenetta all’italiana sul ddl intercettazioni. Prima è stato presentato, a sorpresa, un emendamento col quale si prevedeva il carcere fino a quattro anni per chi diffonde, “al fine di recare danno alla reputazione o all’immagine altrui, riprese o registrazioni di conversazioni svolte in sua presenza e fraudolentemente effettuate”. Subito si è levato un coro di protesta da parte dell’intera opposizione. Forza Italia, giustamente, ha fatto notare come tale furia giacobina contro le intercettazioni non fosse presente finchè si trattava di condannare giudizialmente Berlusconi. La Lega ed il Movimento Cinque Stelle sottolineavano con vigore come questa norma comportasse una volontà censoria nei confronti dei giornalisti.

Proprio a causa di questo inusitato vespaio, è dovuto intervenire direttamente il Guardasigilli Andrea Orlando, che ha così dichiarato: “Non è l’orientamento del governo prevedere la galera per i giornalisti. Vedremo il testo finale”. Infatti il Pd ha poi presentato un emendamento a firma Verini-Ermini al ddl di riforma del processo penale che esclude la punibilità per i giornalisti che nell’ambito del diritto di cronaca utilizzano conversazioni registrate di nascosto. Esclusa anche la punibilità per registrazioni utilizzate in processi penali e amministrativi o per l’esercizio del diritto di difesa. Questo il successivo commento del ministro Orlando: “Credo che anche la rapidità con la quale si è ritenuto di dover riscrivere la norma dimostri che non c’era alcuna volontà di colpire la stampa”.

Eppure a noi tutta questa baraonda non ci convince. Come spesso accade, non si è parlato del reale problema. Secondo i più si volevano colpire quelle trasmissioni, come Le Iene e Report, che si caratterizzano per il massiccio uso di immagini rubate di nascosto. Ma così non si coglie il vero problema che sta alla base del problema, tutto italiano, delle intercettazioni. Ci si dimentica che spesso i giornalisti pubblicano queste intercettazioni, come anche avvisi di garanzia od altro, prima ancora che il procedimento penale sia di dominio pubblico. Eppure in questo caso si configura la fattispecie della violazione del segreto d’ufficio, punita dall’art. 326 del codice penale. Ma la prassi è talmente consolidata che nessuno più si preoccupa di questa evidente ed ingiustificata violazione della privacy dei cittadini. Chi è, secondo voi, la gola profonda di questi atti? L’umile servitore dello Stato, appartenente alla più scalcagnata amministrazione pubblica dell’intero globo terracqueo, cioè quella italiana? Oppure l’impavido magistrato che spesso, grazie proprio a processi dalla vasta eco mediatica, riescono poi a lanciarsi nell’agone politico?

Ovviamente, essendo la nostra (nei fatti) una Repubblica dei giudici, non possiamo certo affermare che siano questi ultimi i colpevoli di queste fughe di notizie. Non siamo certo abituati a scontrarci con i dogmi del pensiero politicamente corretto. Però, a volte, ci sovviene quell’antico ammonimento di un famoso politico della Prima Repubblica: “A pensar male si fa peccato, ma spesso ci si azzecca”. Cosa dite, lo facciamo nostro?

Alessandro Cavallini