Probabilmente molti osservatori, in queste ore e in questi giorni, saranno rimasti un po’ sconcertati dalla doppia velocità che i rapporti USA-Nord Corea e USA-Iran stanno conoscendo. Se nel primo caso, infatti, la tendenza è al disgelo, nel secondo caso invece è al ricongelamento, all’aumento della tensione. Eppure, contrariamente a quel che potrebbe sembrare a prima vista, la marcia innestata da Trump è sempre la stessa con entrambi gli interlocutori, e gli effetti che produce sono i medesimi.
Con la Corea del Nord, non dimentichiamocelo, prima d’approdare all’attuale distensione ci sono stati mesi, per non parlare addirittura di anni, di forti tensioni. L’arrivo del giovane Kim Jong-un ha portato ad un crescendo della tensione con gli Stati Uniti rispetto ai già turbolenti rapporti che si potevano registrare col padre Kim Jong-il. D’altronde, anche l’arrivo di Trump al posto di Obama ha sortito sui rapporti fra Stati Uniti e Corea del Nord i medesimi effetti.
Kim Jong-un nella sua partita con Trump s’è avvalso dell’appoggio diplomatico, discreto ma comunque indefettibile, di due alleati di primo corso e di massima entità come Russia e Cina, su cui tutti gli sforzi della Casa Bianca per abbandonare Pyongyang al proprio destino non hanno sortito alcun risultato tangibile. Ma, tra un lancio di missile e l’altro, ha anche elevato fortemente il proprio potere contrattuale, e quando alla fine ha proposto di fare la pace s’è trattata di un’offerta che non si poteva proprio rifiutare. Come potevano, a quel punto, gli americani, dire di no ed assumersi quindi automaticamente la responsabilità d’essere allora loro quelli che fomentavano e portavano avanti la tensione? Dire di sì, per Trump e i suoi, era una scelta obbligata oltre che desiderabile, solo che comportava uno spiacevole effetto collaterale: il Giappone, alleato storico di Washington nella regione, si ritrovava a quel punto bypassato dalla trattativa diretta fra Stati Uniti e Corea del Nord, praticamente messo all’angolo. Per Shinzo Abe s’è trattato di uno schiaffo non soltanto morale ma anche politico di primissimo piano. Quanto al secondo alleato storico degli Stati Uniti nella regione, sempre in base al solito effetto collaterale finiva invece per ritrovarsi non più una semplice pedina nel gioco fra Washington e Pyongyang, ma al contrario elevato ad attore e supervisore di fondamentale importanza; peggio ancora, persino garante degli interessi di Kim Jong-un più che di quelli della Casa Bianca.
Insomma, per la Corea del Nord è stata una vittoria storica, che non ha a caso sta già facendo scuola a livello di diritto internazionale e di geopolitica. Tutti coloro che, nel mondo, hanno qualche problema di “convivenza” con gli Stati Uniti lo stanno già studiando per ripeterlo a loro volta e a proprio vantaggio.
E’ il caso anche dei rapporti fra Stati Uniti ed Iran. Di fronte ad un presidente americano che conosce una sola velocità e un solo linguaggio, e soprattutto un solo tipo d’approccio, quello dello scontro frontale che lo porta ad elevare le capacità contrattuali dei suoi avversari mettendo infine all’angolo i propri alleati locali e regionali, anche a Teheran hanno già capito quali saranno le prossime mosse che dovranno fare. Trump è convinto che il Trattato sottoscritto con l’Iran ai tempi di Obama non sia servito non tanto ad impedire la continuazione dell’arricchimento dell’uranio da parte di Teheran, quanto piuttosto l’avanzata e la crescita d’influenza della Repubblica Islam e degli sciiti in Medio Oriente. Da questo punto di vista non gli si può certo dar torto, e anche a Tel Aviv, che gli ricorda questo fatto un giorno sì e l’altro no, lo sanno molto bene. In questi anni, con una sorprendente accelerazione negli ultimi mesi, l’Asse della Resistenza s’è rafforzato enormemente. In Siria Assad sta vincendo la guerra, e gli equilibri politici della Damasco postbellica saranno molto più filoiraniani e filorussi di quanto potevano esserlo prima del 2011. In Libano, solo pochi giorni fa, Hezbollah e i suoi alleati hanno riportato una storica e massiccia vittoria elettorale. In Iraq Daesh è stato ormai completamente debellato e il paese, a maggioranza sciita, s’è avvicinato sempre di più a Teheran, entrando di fatto a far parte dell’Asse della Resistenza o quasi. Infine nello Yemen da anni gli sciiti Houthi hanno fatto la rivoluzione, si sono impadroniti di buona parte del territorio nazionale e la guerra scatenata contro di loro dall’Arabia Saudita e dai suoi alleati locali li ha visti ulteriormente trionfare, seppur a prezzo di enormi sacrifici umanitari. Il timore dei Saud, a questo punto, è che anche nel Bahrain, a maggioranza sciita ma retto da una monarchia sunnita ed amica, possa risvegliarsi il conflitto civile latente che dopo il 2011 non è mai stato davvero del tutto pacificato. Questi timori sono condivisi, logicamente, anche da Tel Aviv e da Washington.
E allora come andrà a finire? Com’è prevedibile, Trump mosterà i muscoli e partirà all’attacco frontale contro Teheran, ovviamente solo in termini politici, diplomatici e verbali, non senza trascurare le nuove sanzioni economiche di cui già si parla. Ci rimetteranno soprattutto le imprese europee, anche italiane, che con l’Iran vantano un interscambio e un giro d’investimenti non indifferente. A Teheran, intanto, hanno già annunciato di voler riaprire i siti nucleari e di voler quindi riprendere l’arricchimento dell’uranio. Ciò susciterà, com’era avvenuto anche in Asia nei momenti più tesi dello scontro con Pyongyang, il desiderio di nuclearizzarsi anche da parte dell’Arabia Saudita, un desiderio di fatto almeno verbalmente già espresso. La tensione non farà che salire, e in Iran alla lunga avvantaggerà i settori conservatori e più nazionalisti a discapito dei riformisti attualmente al potere. Ma prima che ciò possa tramutarsi in un revival politico dei conservatori, i riformisti nel frattempo appagati dall’aumento di potere contrattuale fino a quel momento guadagnato faranno un’offerta di pace che non si potrà rifiutare, proprio com’è avvenuto con Kim Jong-un. Potranno anche in questo caso, gli americani, dire di no figurando davanti a tutto il mondo come i responsabili di una prosecuzione e di un’elevazione della tensione con Teheran? Ovviamente no, proprio com’è successo con Pyongyang. E così anche il dossier iraniano verrà chiuso con un bello stemperamento della tensione, magari anche con qualche visita a Teheran del fido Pompeo o di chi nel frattempo avrà preso il suo posto. Anche in questo caso, i due alleati storici degli Stati Uniti nella regione, Israele e l’Arabia Saudita, si ritroveranno bypassati dal filo diretto fra Washington e Teheran, e quindi messi all’angolo. Un secondo e doppio schiaffo politico e morale, come al solito per colpa di un Trump che coi suoi scontri diretti e frontali finisce solo per giocarsi gli alleati locali.
Ovviamente fra il dire e il fare c’è di mezzo il mare, e lo sappiamo tutti molto bene. Il peso che l’Arabia Saudita e Israele possono vantare sulla politica americana è molto diverso da quello, pur sempre importantissimo, che può vantare Tokyo. Solo per dirne una, l’Arabia Saudita vende il suo petrolio in dollari secondo il famoso accordo fra Nixon e Re Faysal del ’73, presieduto da Kissinger. Ma è anche vero come, soprattutto in materia di Medio Oriente, non ci possano essere sfere di cristallo da consultare. Deve invece colpirci, e questo può già essere un elemento in grado di fornirci una chiave di lettura, l’atteggiamento di Trump, che tanto con la Corea del Nord quanto con l’Iran ha portato e sta portando avanti, in tempi diversi, l’uno alla volta, la stessa strategia: una strategia che, a quanto pare, si rivela poco fruttuosa per la Casa Bianca ed ancor più per i suoi tradizionali alleati in quelle regioni.