Tre attentatori suicidi dotati di gilet esplosivi e Kalashnikov modificati (senza calcio posteriore e con un grip aggiuntivo davanti il caricatore, per venire usati come mitragliette) hanno attaccato l’aeroporto internazionale Ataturk di Istanbul, il terzo scalo aereo più trafficato d’Europa, aprendo il fuoco alla barriera dei controlli di sicurezza e poi sparpagliandosi per le sale d’attesa e i corridoi dei terminal cercando di farsi esplodere insieme al maggior numero possibile di vittime.

Il bilancio dell’attentato, 36 morti e 147 feriti, sarebbe stato anche più grave se un poliziotto turco non fosse riuscito ad abbattere un terrorista mentre correva solo, forzandolo ad attivare la propria bomba senza nessuno attorno a sé (la foto in apertura all’articolo mostra l’attentatore in questione pochi istanti prima di farsi detonare).

Alcuni commentatori ipotizzano che tale sanguinoso attacco rappresenti una specie di “punizione” da parte dei gruppi dell’estremismo religioso armato per alcuni timidi segnali di retromarcia della dirigenza turca rispetto all’incondizionato supporto che avevano ricevuto dal 2011 in avanti, citando per esempio le recenti scuse inviate a Mosca per l’abbattimento del bombardiere Su-24 avvenuto lo scorso novembre.

Altri, fra cui chi scrive, pensano invece che ormai la Turchia abbia completato la propria metamorfosi in un vero e proprio Pakistan alle porte dell’Europa, uno stato completamente penetrato e infiltrato dal terrorismo jihadista dove una classe dirigente autoritaria e antidemocratica ripete stancamente, soprattutto per il piacere delle orecchie americane, di essere impegnata nella lotta all’estremismo, quando invece ne è tra i primi facilitatori e finanziatori.

A mio personale giudizio non ha nessuna fretta di colpire l’ISIS o di impedire le sue operazioni in Siria e in Irak, che gli sono risultate immensamente utili negli ultimi anni generando importanti flussi di contrabbando di petrolio, opere d’arte e beni industriali saccheggiati in quei paesi, hanno creato il flusso di profughi che gli ha dato modo di ricattare l’UE facendosi assegnare miliardi di fondi da Bruxelles e gli hanno dato la scusa per incrementare la repressione contro i movimenti curdi e i partiti politici di opposizione nel più classico copione da “Strategia della Tensione”.

Anni di ostinata personalizzazione del regime erdoganiano hanno spento ogni possibilità di un suo rovesciamento, magari a opera delle forze armate? O queste saranno ancora in grado di dimostrarsi le custodi della stabilità dello Stato plasmato da Mustafa Kemal prima che esso devolva definitivamente in una satrapia collusa con l’estremismo takfiro?