Khalifa Haftar

Ad un mese dal settimo anniversario della morte del Colonnello Muhammar Gheddafi, al potere in Libia per 42 anni, avvenuta in seguito all’intervento militare di una coalizione di Stati occidentali sotto la guida NATO, cui l’Italia partecipò obtorto collo, i rapporti tra il nostro Paese e quello nordafricano vivono un momento di svolta. Il ministro degli esteri italiano, Enzo Moavero Milanesi, ha infatti recentemente incontrato a Bengasi il feldmaresciallo Khalifa Haftar, ministro della difesa e capo di stato maggiore del governo avente sede a Tobruk, nella Cirenaica, ricambiando, dopo un anno esatto, la visita ufficiale del generale libico in Italia agli allora ministri Pinotti (difesa) e Minniti (interni), oltre al capo dei servizi segreti, Alessandro Pansa.

Pur confermando il sostegno al Governo di Accordo Nazionale, avente sede a Tripoli e guidato da Fayez al-Sarraj, il nostro esecutivo, con l’avvio di negoziati e trattative alla luce del sole con “l’uomo forte della Cirenaica”, ricalibra la sua posizione sull’infuocato scacchiere libico, alterando i già precari equilibri internazionali intorno al Paese nordafricano.

Perché se è vero che per tutelare l’Eni, la quale opera in Tripolitania, regione controllata, sempre più a fatica in verità, da Serraj, sono necessari accordi con quest’ultimo, è altrettanto vero che Haftar controlla ormai circa il 90% del territorio libico, forte del supporto, non solo militare, di Russia, Egitto, Emirati Arabi Uniti e, non ultima, Francia.

Il Paese transalpino, principale artefice dell’intervento armato del 2011 che ha gettato la Libia nel caos della guerra civile, dopo un iniziale momento di esitazione ed ambiguità, ha poi definitivamente virato verso il governo di Tobruk, sin dagli albori sostenuto da Emirati Arabi Uniti ed Egitto, seguiti a ruota dalla Russia; Serraj può invece contare sull’appoggio, sempre più formale, di Onu e Unione Europea, oltre che di Stati Uniti e Regno Unito.

E poco importa se il consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite ha recentemente approvato la risoluzione del Regno Unito che estende di un anno il mandato della missione in Libia ma non approva le elezioni politiche a dicembre, tanto volute da Macron, poiché Haftar avrebbe comunque la forza, non solo militare, per “marciare su Tripoli”, come già evocato in più di un’occasione.

Ma di cosa hanno discusso, in buona sostanza, Moavero e Haftar a Bengasi? Le dichiarazioni formali, condensate nella formula di “un’ampia convergenza per un’intensa cooperazione e sul comune impegno per una Libia unita e stabile” lasciano intendere che siano stati affrontati i temi cruciali, ovvero petrolio, gas e immigrazione.

Addirittura il feldmaresciallo libico avrebbe offerto all’esecutivo italiano una sorta di piano “partenze zero”, il quale passerebbe attraverso la trasformazione delle tribù Tebu, stanziate nel sud del Paese, in “guardie di confine” con il compito di sbarrare la strada alla marea umana di profughi che dall’Africa subsahariana entra in Libia per poi riversarsi sulle coste europee, italiane in primis.

Un piano indubbiamente allettante, ma anche costoso: all’Italia spetterebbe l’onere di finanziarlo con diversi milioni di euro, da impiegare non solo nell’addestramento dei Tebu come guardie di confine, ma anche da investire nella loro lotta contro le tribù Tuareg, legate ai gruppi jihadisti islamici, in particolare quelli finanziati e armati dal Qatar.

Quanto all’Eni, la quale opera proficuamente anche in Egitto, Israele e Cipro, e che produce in Libia più di dieci volte il quantitativo di petrolio della francese Total, è indubbio che non sia stata valutata l’intrinseca debolezza del governo di Serraj e la prospettiva, sempre più probabile, di una Libia pacificata e guidata dal governo di Tobruk; la Conferenza sulla Libia di novembre, ospitata dal nostro Paese, dovrebbe aiutare, si spera, a chiarire la situazione.

Sarà un evento di primaria importanza (ed un banco di prova decisivo per il nuovo governo) durante il quale l’Italia avrà l’occasione di difendere, finalmente, i suoi interessi strategici e riscattarsi dall’aver contribuito a destabilizzare, senza nulla guadagnare e anzi pagando fino in fondo tutte le possibili conseguenze negative, un Paese attraverso il quale passa gran parte della nostra capacità di proiettare influenza geopolitica nel Mediterraneo.