Julian Assange mostra tutti i sintomi associati ad una prolungata esposizione a torture psicologiche e non dovrebbe essere estradato negli Stati Uniti. Ne è convinto Nils Melzer, un esperto dell’Onu, che il 9 maggio scorso ha fatto visita al fondatore di WikiLeaks in carcere. Melzer, relatore speciale delle Nazioni Unite sulle torture, dovrebbe lanciare oggi il suo appello in favore di Assange al governo di Sua Maestà. A rivelarlo è il Guardian.
Da quando Wikileaks ha iniziato a “pubblicare prove di crimini di guerra e torture commesse dalle forze statunitense, c’è stata una campagna implacabile contro Assange, non solo negli Stati Uniti, ma anche nel Regno Unito, in Svezia e, più recentemente, in Ecuador”, afferma Melzer, condannando “nel modo più assoluto, il carattere intenzionale, concertato e sostenuto degli abusi inflitti a Assange”.
“La persecuzione collettiva di Julian Assange deve finire adesso”, insiste Nils Melzer.
Attraverso lettere ufficiali inviate all’inizio di questa settimana, precisa il comunicato, l’esperto indipendente ha esortato i quattro governi coinvolti “ad astenersi da ulteriori dichiarazioni o atti pregiudizievoli per i diritti umani di Assange e ad adottare misure per fornirgli un risarcimento e una riabilitazione appropriati”.
Ha infine rivolto un appello al governo britannico di non estradare Assange negli Usa o in qualsiasi altro Stato che non fornisca garanzie contro il suo trasferimento negli Stati Uniti, “dove rischia l’ergastolo o persino la pena di morte, se nuove accuse dovessero sopraggiungere in futuro”.
Assange, la cui salute sarebbe “deteriorata in modo significativo”, è stato trasferito in un reparto medico della prigione di Belmarsh. Lo rende noto Wikileaks secondo cui vi sono “gravi preoccupazioni” per Assange che ha “perso drammaticamente peso” durante le sue sette settimane di detenzione. Le sue condizioni sono peggiorate a tal punto che faticherebbe anche a parlare.
Su Julian Assange, oltre alle accuse di abusi sessuali da parte di due donne di Stoccolma, pendono 17 nuovi capi di imputazione negli Stati Uniti per la pubblicazione nel 2010 di informazioni classificate del Pentagono e del dipartimento di Stato che gli aveva passato l’ex analista militare Chelsea Manning.
Il 47enne australiano, che si trova a Londra, dove è stato arrestato il mese scorso dopo quasi 7 anni di asilo nell’ambasciata dell’Ecuador, era già stato accusato dagli States (che ne hanno chiesto l’estradizione) di “cospirazione per commettere un’intrusione informatica per aver acconsentito a crackare la password di un computer riservato del governo Usa”.
Le nuove accuse riguardano invece la violazione dell’Espionage Act, una legge del 1917 pensata per i traditori che passano informazioni al nemico. La Manning era stata condannata nel 2013 a 35 anni di carcere in base all’Espionage Act, prima di essere graziata dall’ex presidente Barack Obama. Le pene previste vanno dalle multe economiche alla condanna a morte.
“E’ pazzia. E’ la fine del giornalismo sulla sicurezza nazionale e del Primo emendamento della Costituzione americana sulla libertà di parola, di stampa e di riunirsi pacificamente”, è stato il commento di Wikileaks via Twitter.
Il governo Usa sostiene, invece, che Assange, le affiliate di Wikileaks e la Manning abbiano condiviso “il comune obiettivo di sovvertire le restrizioni di legge sulle informazioni classificate per disseminarle”. Molti di questi documenti erano classificati a livello ‘secret’, e ciò significa, spiega l’accusa, che la loro divulgazione non autorizzata può causare seri danni alla sicurezza nazionale degli Stati Uniti”.
Tra i documenti pubblicati da Wikileaks anche quelli relativi agli abusi e alle torture compiuti dall’esercito americano in Afghanistan e in Iraq. Un affronto troppo grande per il sedicente “impero del bene”. Assange ha osato sfidare a viso aperto il gendarme planetario, svelandone il lato più feroce in due tra le più celebrate campagne militari d’aggressione travestite da lotta al terrorismo. Per gli Stati Uniti è un acerrimo nemico da punire. Per tanti presunti difensori della libertà di stampa ad uso e consumo di Washington, è solo un fastidio. Insieme all’esistenza di Julian Assange si sta consumando quella del giornalismo d’inchiesta indipendente. Con la sua voce sempre più flebile, stanno strozzando quelle di tanti cronisti, inviati e corrispondenti che tra mille ostacoli hanno fatto di una professione nobile e molto antica, una missione. Assange non è solo un nome: è un grido di libertà e di battaglia.