La fine degli anni 60 fu un periodo di enorme propulsione creativa della musica rock, nel quale si scrissero grandi e numerosi capolavori in pochissimi anni.
I cambiamenti di costume ed il periodo storico preso nel suo complesso portano un pubblico educato ad aspettarsi idee sempre più innovative e geniali dai loro musicisti. È inevitabile citare il “Sgt. Pepper” dei Beatles, “Days of future passed” dei Moody Blues e “The piper at the gates of dawn” dei Pink Floyd, tutti e tre usciti in quel fatidico 1967, come tre lavori che cambieranno il volto della musica Rock per sempre.
Gli anni a cavallo tra i Sessanta e i Settanta sono anni in cui assistiamo ad una crescita verticale. La musica popolare si lascia alle spalle un’adolescenza spensierata e tenta di costruire un’immane torre di Babele complessa, monumentale, simbolo di della maturità raggiunta.
Robert Fripp, originario di Salisbury si trasferisce a Londra in quegli anni e fonda un gruppo: Giles, Giles and Fripp. La musica del trio è un pop eccentrico, in linea con la musica “radio friendly” di quegli anni, ma già fa intuire che qualcosa cova sotto la brace. Dopo diversi cambi di formazione, quel piccolo, poco conosciuto gruppo dell’Underground britannico cambia nome scegliendo un evocativo “King Crimson”.
Anche la musica cambia, non solo nella forma esterna, ma soprattutto nello spirito, che ora si fa curioso, sperimentale, ambizioso e più oscuro. Tutti i grandi gruppi storici seppero elevare a qualcosa di visionario le tradizioni musicali che avevano alle loro spalle: i Beatles lo fanno in maniera eloquente con il loro periodo psichedelico, Jimi Hendrix mostrerà al mondo come il blues possa diventare un urlo molto più estremo di quello sino ad allora pensato, Terry Riley si spingerà in territori sonori di inaudita bellezza.
I King Crimson arrivano sulla scena come un fulmine, preparati, già maturi, come un gruppo che parlava una lingua più aulica. Non solo il solito Rock & Blues, ma Jazz, Musica Classica, Etnica, un tutto che si fonde all’insegna di un viaggio a tratti profondamente romantico e “colto”, a tratti pericolosamente sperimentale ed eterodosso, ai limiti delle barriere musicali consuete.
“In the court of the Crimson King” è il primo passo ufficiale in classifica. È il primo disco di questa fantastica prima formazione e purtroppo sarà anche l’ultimo. Greg Lake spicca in virtù di una voce unica ed elegante, Robert Fripp mutua la sua frenesia chitarristica dalle sperimentazioni Jazz di Ornette Coleman per poi stupire su brani quieti con un tocco fluido, angelico, inarrivabilmente preciso.
La fenomenale e profetica critica della modernità di “21st Century Schizoid Man” mostra al mondo quanto esso sia degenerato ed ormai quasi invivibile. Parliamo di un brano destinato a rimanere immutato nel tempo , ancora valido oggi nei contenuti e negli effetti. “Schizoid Man” diventerà il cavallo di battaglia dei Crimson, verrà ripresentato dal vivo da tutte le formazioni successive alla prima. Forse il motivo lo si può trovare nel fatto che questo brano porta con sé tutte le componenti necessarie a farci capire questo gruppo. È tutto qui: la dilatazione/distruzione della forma canzone, la critica del sistema capitalistico-industriale, la totale distanza dai cliché della musica da classifica, la voce distorta e disumana – proprio come la società descritta nelle liriche del fenomenale poeta Peter Sinfield.
Se Schizoid Man, il primo brano del disco, si presenta come un sofisticato incubo, il secondo brano, “I talk to the wind” invita l’ascoltatore ad immergersi in un’atmosfera da fiaba. I flauti che ripropongono una morbida sonorità rinascimentale, le dolcissime voci di Lake e Ian Mc Donald, il factotum musicale della band, contribuiscono a regalarci una creazione oniricamente splendida, stupefacente, inedita.
A tale gemma, segue la nobile, drammatica tragicità di “Epitaph”. Questo è un brano che definire storico, parrebbe riduttivo. Parla di un’umanità che ha perso i propri valori fondamentali, parla di una condizione di fragilità estrema ed inguaribile. Pare che l’abissale ricerca della verità, che fu tratto distintivo dell’Antica Grecia, si sia affacciata nella musica inglese, per un lungo periodo. A ragione, Pete Townshend, il chitarrista degli Who, parlerà più di Musica con la “m” maiuscola, per quanto riguarda questo album, e non più di Rock in senso stretto.
Se Epitaph è tanto drammatico capolavoro, “Moonchild” ci riporta al tema narrativo della fiaba, ma con toni pressoché spettrali e sottilmente magici. Ci troviamo al tramonto o all’alba, le due energie del giorno e della notte si incontrano creando una realtà percettiva di raffinata allucinazione cosmica. “The court of the crimson king”, importante brano che dà il titolo all’album, eleva la suddetta vena fiabesca alla sua epitome strumentale e simbolica. Come in tutto il disco, “Il re Crimson”, è capace di creare un mondo alternativo, inedito, e soprattutto totalmente incomparabile.
Un esordio quasi inarrivabile, che sarà difficilmente avvicinato dal gruppo stesso con i suoi lavori successivi e con le sue differenti formazioni.
“In the wake of poseidon” del 1970 è un disco amato dai fans dei Crimson, ma molta critica lo considera un lavoro non ai livelli di “In the court”. Eppure splende di una sua peculiare bellezza, nonostante verrà scritto e registrato in una situazione molto instabile, con continui cambi di formazione e diatribe interne.
Peace, il brano d’entrata, offre la nuda voce di Greg Lake come una sorta di pegno spirituale per l’entrata di un disco che sorge con mistero: tale apertura metafisica viene immediatamente contraddetta da Pictures of a city, come a dire che la società – la canzone descrive New York, il simbolo del mondo moderno – si è allontanata drasticamente dalla pace e dalla fondamentale ricerca di essa. “Pictures” e’ un brano jazz frenetico alla maniera di “Schizoid man”, con la differenza che rispetto a quel brano non può contare sul cosiddetto “effetto sorpresa”. Cadence and cascade, riprendendo la vena favolistica di “I talk to the wind” , gode della delicata voce di Gordon Huskell, del flauto magico del grande Mel Collins, e di un misurato e delicato arpeggio di Robert Fripp. Questo brano ci svela un lato dolce dei Crimson, forse intuibile nel disco precedente, ma qui espresso alla perfezione.
“In the wake of poseidon” è uno dei brani più belli non solo della discografia crimsoniana, ma anche di tutto il Rock Progressivo. È la prova provata che il Progressiv è stato soprattutto un tentativo di approfondimento culturale: Peter Sinfield nelle sue liriche cita il capitalmente importante Timeo di Platone, colonna portante di tutta la cultura occidentale. Attraverso una riflessione sugli elementi che compongono il Cosmo, l’autore prega l’umanità’ tutta di ritrovare l’unità con il Creato, riscoprendo l’equilibrio universale, cosiddetto “cosmo-teandrico”, usando sapientemente la metafora dell’equilibrio dei piatti di una bilancia. È un appello simile a quello di “Epitaph” del disco precedente, ma vive in un universo tutto suo, e può ancora oggi farci riflettere sul destino della nostra civiltà, sia a livello storico che meta-storico.
Il secondo brano a nome Peace – A Theme è suonato interamente alla chitarra con sublimi accenti carcassiani ed offre un atipico intro alla movimentata “Cat Food”, che sarà descritta da Robert Fripp come un brano “rock alla maniera dei Crimson”. La canzone sarà l’unica della discografia ad essere eseguita durante la trasmissione del famoso programma televisivo “Top of the pops”, il che la dice lunga sulla mancata vocazione commerciale dei nostri.
Il disco prosegue con uno dei brani strumentali più sinistri e significativi della storia dei Crimson, e di tutto il progressive: “The Devil’s triangle”, rilettura parossistica di “Mars”, del compositore classico Gustav Holst. È una lunga suite-epopea che costringe l’ascoltatore a visitare tenebrose regioni musicali.
Ma se si riesce a superare la prova, ecco che ci attende l’ultima “Peace” del disco, che tramontando insieme all’album ci richiede ancora una volta di riflettere sulla pace e sulla nostra ricerca di essa.
Se “In The Court” e “In The Wake” sono dischi che si presentano all’ascoltatore in maniera differente è altrettanto vero che a livello stilistico non vi sia una grande distanza tra i due lavori. Alcuni considerano questo un male, altri un bene, tanto che “In The Wake” verrà definito “Un gran disco ed un disco deludente”.
Gli elementi fin qui usati vengono in qualche modo estremizzati nel lavoro successivo: Lizard. Il nuovo cantante, Gordon Huskell, ha una voce molto diversa da quella di Greg Lake e anche la materia musicale proposta trova un nuovo corso.
L’arpeggio impazzito di “Cirkus” – canzone caratterizzata dall’uso strumentale del VCS3, sintetizzatore di moda all’epoca – il riff sepolcrale di “Happy family”, ci fanno gia’ pensare sul primo lato ad una precisa volontà di spingerci oltre ciò che era stato scritto sino ad allora. La bella, delicata ballata “Lady of the dancing water” prelude ad un lato B sul quale inizio troneggia la particolare voce di Jon Anderson, cantante degli Yes. È un incipit melodico ma irregolare che scivola in un maestoso coro crimsoniano, marchio di fabbrica che fa bella mostra di sè anche in brani precedenti come “In the Court” o “In the wake”.
La suite prosegue con una sezione tra jazz e musica classica, la parte dell’album preferita da Fripp e a ragione. “Bolero” è un vero capolavoro che ci mostra il meglio della sperimentazione musicale di quegli anni.
Il resto della suite si fa però ombroso. Vi è una presenza tangibile ancora una volta della musica jazz, qui estremizzato sino a condurci alla chiusa di una chitarra spettrale e “trattata”, accompagnata da spettrali percussioni, espresse in ritmo marziale.
Se Lizard è da molti considerato un passo estremo nella discografia Crimson è altrettanto vero che Islands, il disco successivo è considerato da Robert Fripp in persona come quello più accessibile.
La formazione precedente sbanda: stavolta non vi sarà addirittura il classico tour per dare supporto commerciale al disco. Boz Burrell viene reclutato come cantante e deve imparare a suonare il basso in fretta e furia, cosa che gli riesce miracolosamente bene. Keith Tippett avrà un ruolo fondamentale nella riuscita del disco che è molto caratterizzato dall’uso di archi – una testimonianza barocca in tal senso è il preludio “Songs for the gulls”.
Il gusto romantico-etereo, che costituisce la voce principale del disco, non fu gradito dalla critica dell’epoca. Un peccato perché le composizioni, prese singolarmente, sono belle ed inusuali, non solo nella discografia Crimson.
“Formentera Lady” è il ricordo di una vacanza psichedelica. Un matrimonio tra le liriche immaginifiche di Peter Sinfield, il piano jazz di Keith Tippett, la voce eterea di Boz Burrell, gli archi discreti che vanno a formare il sottofondo e la voce soprano di Paulina Lucas. “A sailor’s tale” è invece il brano più coraggioso del disco, suddiviso in diverse “stanze” musicali – questi territori strumentali saranno battuti dai Crimson nel disco successivo con esiti inaspettati. Mai Fripp si era spinto cosi’ in là: la sua chitarra suona minacciosamente libera, così come i ritmi irregolari del brano conferiscono allo stesso un’aura di inaccessibilità.
La schizofrenia crimsoniana del piano-forte-piano viene simbolicamente rappresentata dal brano “The letters”. Le liriche vanno ad iscriversi da qualche parte tra un dramma shakespeariano e Nathaniel Hawthorne, mentre la musica propone lo shock sonoro tra luci ed ombre descritto sopra. Così come era successo in “Cat Food”, “Ladies of the road” presenta reminescenze (sarcastiche?) del lavoro di Lennon-McCartney.
Mentre siamo in piena epoca barocca con il brano per archi “Songs for the gulls”. Sembra davvero di ascoltare Bach in uno dei suoi momenti “pastorali”. Con il brano “Islands”, che dà il titolo al disco, ci si apre al mondo della poesia metafisica inglese. È un brano eterno e romantico, reso con grande bravura interpretativa grazie all’elegante piano di Keith Tippett, ed alla aggraziata voce di Boz Burrell. Mai i Crimson si espressero in questa maniera prima , e mai piuù lo faranno in futuro. Non è un caso che questo bellissimo brano funga da chiusa ad un’era crimsoniana, e preluda ad una pausa nella discografia.
Certe pause nella storia della musica sono necessarie, tuttavia alcune si dimostrano benefiche, mentre altre si rivelano letali ai fini dell’ ispirazione.
In quel 1972 Robert Fripp prese la decisione giusta nel concedersi un anno sabbatico. Un disco live, “Earthbound”, fu pubblicato unicamente al fine di ottemperare ad obblighi contrattuali e lo si può avvertire nella mancanza della solita eccellenza alla quale i Crimson ci avevano abituato. Il disco è tuttavia interessante ancora oggi per i fans più accaniti: presenta infatti un lato della formazione con Boz Burrell molto distante da quello emerso in “Islands”.
Nel 1973, dopo aver reclutato Bill Bruford degli Yes, il misterioso percussionista Jamie Muir, il talentuoso cantante John Wetton, che è anche bassista, i King Crimson sono una forza creativa che vira verso nuovi, inesplorati territori. L’improvvisazione sarà una porta verso nuovi mondi, in questa fase.
“Larks Tongues In Aspic” apre le danze con una impalpabile e musicalmente amelodica “stanza” improvvisata dal nuovo venuto Jamie Muir. È una suite che cambia in termini di ispirazione ed umore, in maniera geniale ed analoga a quella di un brano di musica classica. In molti lo chiameranno “il bolero di Fripp”. Il brano successivo “Exiles” è un esempio molto originale di ballata sperimentale, una formula diversa da quelle presentate dai Crimson finora. Il resto di Larks Tongues è costantemente accattivante. Cosi’ saranno anche i dischi successivi “Starless and the bible black” e “Red”, che confermeranno la forma smagliante del gruppo.
Fenomenale la chiusa del secondo disco citato: il brano “Starless“, mutuando la sua malinconia dal lavoro del poeta Dylan Thomas, pare un capitolo finale non solo per i Crimson, ma per tutta un’epoca. È un bellissimo e struggente addio che non può lasciare indifferente nessun cultore della musica di quegli anni.
Dopo uno iato durato sei anni, i King Crimson si riaffacceranno sulle scene con una line up completamente diversa soltanto nel 1981.
Ma questa è un’altra storia, e soprattutto un’altra musica.
Elias Giorgio Fiore