Quella che leggerete oggi nel giorno della Festa del Lavoro è una storia da classificare nella categoria “da non crederci”. Soprattutto se vista da questa parte del mondo. Ma basta davvero poco – magari qualche libro di storia, qualche documentario ben fatto, e una di quelle tante serie televisive che ci inondano sulle piattaforme streaming del momento – per capire come tutto ciò che raccontiamo in queste righe è davvero successo. Perché poteva tranquillamente succedere. Perché, forse, doveva succedere se solo capissimo lo scenario che lo ha provocato, la Colombia dei cartelli della droga.
C’è un Mondiale, allora. Quello degli Stati Uniti, nel 1994, vinto dal Brasile ai rigori battendo la nazionale azzurra di Arrigo Sacchi. C’è una nazione partecipante, la Colombia, che da pochi mesi aveva perso il dominatore di tutto, Pablo Escobar, e dove la cocaina e il narcotraffico avevano i tentacoli ovunque, succhiando l’anima di ogni cosa. Anche del pallone. C’è un giocatore, che di nome fa Andres e di cognome guarda caso Escobar – nulla, davvero nulla a che fare con quello più famoso del mondo – capitano di quella nazionale e colpevole di aver fatto perdere una valanga di soldi ai cartelli della droga per la sua autorete, la prima della sua carriera. Come dire: grazie tante per l’autogoal, e dodici colpi a bruciapelo.
Il fatto, in sé, è semplice e notorio: la notte del 2 luglio di quasi 26 anni fa, l’allora difensore dell’Atletico Nacional è crivellato di proiettili in un parcheggio appena fuori un ristorante di Medellin, dove si era recato con tre donne, tutte illese. A sparare un gruppo di uomini tutti membri della malavita locale. La vita del capitano colombiano, in realtà, era già finita qualche giorno prima, ma lui non poteva saperlo. A metà del primo tempo di Colombia-Stati Uniti, infatti, gara valevole per i gironi eliminatori dei Campionati del mondo, Andres commette l’errore di mandare nella sua porta un cross proveniente da fuori area, e di condannare i suoi al ritorno prematuro a casa. Che però, avevano affrontato quella competizione in un clima di terrore puro.
Ce lo dicono alcuni indizi. Inquietanti. Quello del giorno del match, il 22 giugno. Arriva un fax “anonimo” in cui viene imposto al commissario tecnico Francisco Maturana di estromettere dalla partita Gabriel Gomez, 34enne centrocampista, ritenuto responsabile del ko all’esordio contro la Romania. Sempre quell’anno, ma tre mesi prima, c’è il rapimento del figlio di Luis Fernando Herrera, un altro nazionale colombiano, con richiesta di enorme riscatto e un appello drammatico in televisione del giocatore prima della restituzione. L’anno precedente, invece, René Higuita, il famosissimo portiere, era finito in carcere sette mesi per partecipazione, come intermediario, al rapimento della figlia di un possidente. Nel 1990, infine, c’era stato lo sciopero degli arbitri colombiani dopo l’uccisione di uno dei loro, che si era rifiutato di far terminare in un certo modo una certa partita.
Tutto ciò significa due cose. La prima è che in Colombia, anzi, anche in Colombia, il calcio era controllato, dominato, gestito e deciso dai cartelli della droga e dalla criminalità organizzata. La seconda è che la morte di Andres Escobar sarebbe stata decisa da un clan di scommettitori che aveva investito grosse cifre sulla qualificazione della propria nazionale agli ottavi di finale. Nel 1995, un anno dopo la sua esecuzione, è condannato a oltre 43 anni di reclusione Humberto Munoz Castro, per essere stato – reo confesso – esecutore materiale di tutto. E, incredibilmente, almeno in apparenza nessun collegamento “ufficiale” con le scommesse e il narcotraffico, e già libero nel 2005.
Soltanto nel 2018, invece, dopo anni di depistaggi, tangenti pagate per far vincere il silenzio, e altre cose illegali, finisce dietro le sbarre anche il mandante: Santiago Gallon Henao. Chi è? Difficile immaginarlo: un narcotrafficante.