In un’intervista rilasciata al ‘Corriere della Sera’ Bernardo Caprotti, patron della catena di supermercati ‘Esselunga’, ha dichiarato: “per risolvere la crisi bisogna che i greci si mettano a lavorare un po’”. Affermazioni simili sono arrivate negli ultimi tempi da molti politici, che sono meno scusabili per la loro ignoranza: quello dei greci scansafatiche è uno de “I luoghi comuni da sfatare sulla Grecia”, come recita il titolo dell’ottimo articolo uscito su Scenarieconomici.it e già ripubblicato da l’Opinione Pubblica.
In pratica ha detto una cosa al tempo stesso banale ed errata. L’implicazione sarebbe poi che, essendo pigri, si meritano le loro disgrazie: il solito calvinismo neoliberista che forse potrebbe avere qualche senso solo in una società nella quale la disoccupazione tendesse allo zero. Caprotti poi, parlando della situazione italiana, ha fatto riferimento alla Sicilia, “dove ci sono 20.000 forestali in assenza di foreste”, aggiungendo che svolgere un lavoro non è suffiicente, ma che tale lavoro dovrebbe anche essere produttivo.
Sorvoliamo sulla specifica questione sicula per concentrarci sull’idea di produttività del lavoro: da anni sentiamo ripetere che si dovrebbe fare qualsiai cosa pur di aumentarla. Ma che cosa si intende per produttività? Non tutti gli economisti darebbero la stessa risposta a questa domanda, ma in genere si usa la parola per riferirsi alla “produttività media”, calcolata dividendo la produzione per numero di occupati o, come sarebbe più corretto, per numero di ore lavorate. Cosa accade in un sistema economico nel quale aumenta la produttività media? E’ possibile ottenere un maggior numero di beni o servizi mantenendo costante il numero delle ore lavorate. Finchè questo prodotto in più può essere venduto, si possono aumentare i ricavi e migliorare le condizioni dei lavoratori: si tratta, come si suol dire, di un circolo virtuoso. A volte accade invece che per la situazione del mercato l’aumentata produzione non possa essere commercializzata, allora alcuni lavoratori risultano inutili al sistema che può espellerli, abbattendo così i costi senza che la produzione ne risenta: è ciò che accade nella crisi che stiamo vivendo, dove l’iperproduzione si scontra con la caduta del potere d’acquisto e i negozi sono pieni di cose che però restando invendute. L’aumento della produttività porta cosi un danno per i lavoratori che hanno contribuito ad ottenerla.
Della merce che tentano di vendere, il loro lavoro, c’è fin troppa disponibilità, quindi essa non vale più quasi niente e ciò è molto triste, poiché vendere il proprio lavoro significa vendere il proprio tempo, che è l’unità di misura della vita: da un punto di vista soggettivo la cosa più preziosa che esista! Il capitalismo occidentale, che nel suo sviluppo è diventato sempre più consumistico, è andato in crisi poiché si fonda sul doppio ruolo di produttore-consumatore: ognuno contribuisce col suo lavoro a creare la ricchezza di cui può, in virtù di tale contributo, godere partecipando al consumo. Le contestazioni a tale sistema sono diventate sempre più marginali mentre un maggior numero di individui veniva incluso nel gioco. Ora però il sistema si è inceppato, troppe persone non trovano lavoro, oppure ingioiano qualsiasi rospo pur di averne, per di più ci sono personaggi che le umiliano e le denigrano: si pensi al “bamboccioni” di Padoa Schioppa, al “choosy” della Fornero, per arrivare fino a Caprotti.
Chi dovrebbe contrapporsi a questo modo di pensare, come la sinistra e i sindacati, non ci riesce perché condivide la stessa ideologia tanto da usare frasi come “chi perde il lavoro, perde la dignità”: un’affermazione che dà ai datori di lavoro il potere immenso di decidere chi è da considerarsi degno. Il potere di ricatto verso chi cerca un lavoro o teme di perderlo si rafforza, alla componente materiale, che molto spesso è già sufficiente a sottomettere una volontà, si aggiungono difatti quella morale e addirittura quella religiosa: già a San Paolo è attribuita la frase “chi non lavora non ha diritto di mangiare” e di recente il collegamento tra dignità e lavoro l’ha fatto anche Papa Francesco.
Questa ideologia del lavoro, col suo schema “produci-consuma-crepa”, non crea grossi problemi dove c’è lavoro per tutti: i pigri si devono adattare per forza e i pochi devianti non sono in grado di contrastare la forza del sistema e spesso finiscono male. Il lavoro però ora scarseggia, non per un accidente della storia, ma perché così è voluto e pianificato, perché una quota di disoccupati è utile per abbattere i salari. In queste condizioni il pensiero “chi non lavora perde la dignita”, tanto più nella versione autoriferita “io non lavoro, quindi non sono degno” è pericoloso e patologico: uno psicoterapeuta che si sentisse dire una frase simile da un paziente potrebbe pensare di essere di fronte a un ‘pensiero automatico’ che affiora alla mente dell’individuo. I pensieri automatici possono essere positivi o negativi: dai PAN, pensieri automatici negativi, come “non sono degno”, nascono emozioni spiacevoli. Se diventano assillanti possono portare a conseguenze gravi, come depressione e comportamenti autodistruttivi.
I pensieri automatici sono prodotti della nostra mente, creati a partire dalle nostre convinzioni profonde, schemi che derivano da ciò che ci viene insegnato e dalla nostra esperienza di vita. Tali schemi sono presenti nella nostra memoria e sono per la maggior parte del tempo inattivi, se però una persona ha la sventura che un suo schema disfunzionale, foriero di pensieri negativi, si attivi per periodi troppo lunghi, corre il serio rischio di ammalarsi. Un classico intervento terapeutico di contrasto ai PAN è la ‘disputa delle idee disfunzionali’, tecnica che ha lo scopo di far cogliere al paziente la loro infondatezza, illogicità e irrazionalità: per giungere a ciò gli si chiede di argomentare le proprie affermazioni, di dimostrarle, di tentare di convincere anche il terapeuta. L’idea per cui “chi non lavora non è degno” non supererebbe questo tipo di prova, in quanto non corrisponde a nessun fatto dimostrabile: è un atto di fede.
Un pensiero sano per chi cerca un lavoro è piuttosto: “la situazione è molto difficile, io farò del mio meglio, se poi dovesse andare male avrò comunque la coscienza a posto”. Che la situazione sia difficile è un fatto comprovato da tutti gli indici statistici, inoltre è anche ingiusta, in quanto crea esclusione sociale e costringe le persone a competere, cosicché chi trova lavoro forse lo sta togliendo a qualcun altro che ne ha ancora più bisogno. Allora un altro pensiero sano è “nel mio piccolo, farò del mio meglio per cambiare le cose”. Con le parole di Nietzsche-Zarathustra: “il vostro lavoro sia lotta, la vostra pace vittoria”.
Michele Orsini
[…] la colpa della crisi sarebbe dei lavoratori non abbastanza produttivi: si tratta non soltanto di una storia falsa, ma anche, cosa ancora peggiore, di una storia che tenta di convincere le persone di essere molto […]
[…] si troverà ad essere socialmente esclusa, come abbiamo esaurientemente spiegato in un nostro precedente articolo. In ‘Stop mobbing’, altro libro non troppo recente, uscito nel 2000, Antonio Casilli […]