
Scrivere del genio pasoliniano non è affatto semplice. Parliamo tra l’altro di un artista poliedrico che si è sempre definito un poeta, non ascrivibile comunque ad una sola categoria: è stato scrittore, critico letterario, regista, sceneggiatore, drammaturgo e giornalista. Ogni categoria meriterebbe ore ed ore di disquisizione, ed inquadrare con precisione ognuna di esse, sarebbe arduo. Persino descrivere il Pasolini letterato risulta difficile, perché diverse sono le fasi della sua scrittura. Proviamo a darne un assaggio, senza pretendere di fornire un quadro completo.
Le Poesie a Casarsa rappresentano l’esordio poetico del ventenne Pasolini. I testi che compongono quel piccolo canzoniere vengono scritti tra la fine del 1941 e l’inizio del 1942. All’epoca Pasolini abitava a Bologna, e trascorreva a Casarsa le vacanze estive presso la famiglia della madre. Il dialetto friulano gli era perciò quasi sconosciuto, l’illuminazione poetica di servirsene fu essenzialmente uditiva, ossia la trasformazione dei suoni in poesia.
La scrittura diviene concretamente creazione di lingua, il friulano di Casarsa si presta straordinariamente a tramutarsi in un linguaggio poetico, simile a quello ricercato e trovato nei simbolisti. Scrivere in dialetto rispondeva per Pasolini a un profondo bisogno di diversità, in quanto esso rappresentava in modo concreto “la lingua pura per poesia”.
Nel periodo che va dal 1942 al 1953, Pasolini alterna la produzione poetica in dialetto a quella in lingua, generando così due distinti filoni poetici, “l’anti – italiano e l’italiano eletto”. Alla scelta del friulano come lingua poetica, corrisponde quella del Friuli, visto come patria ideale, come metafora del paradiso perduto dell’infanzia, generando così un luogo letterario dettato da una crescente nostalgia.
Il 18 febbraio 1945 Pasolini, assieme ad altri amici, fondano a Versuta l’Accademiuta di lenga furlana. Il Friuli si unisce così alla sua storia, le sue tradizioni culturali, il suo “innocente” desiderio di poesia, alla Provenza, alla Catalogna, ai Grigioni e a tutte le altre patrie di lingua romanza. L’amore per la madre è presente in numerose opere del poeta, ed esso si realizza nella regressione dalla lingua italiana a quella iniziale (materna). Lo scrittore è quindi un uomo che “gioca” con il corpo della madre, vive i bei momenti ricordando costantemente il passato, rimpiangendo l’Eden perduto, ossia la “sicurezza” dell’utero materno.
Alle bellezze del paesaggio friulano si unisce la profondità del Friuli cristiano, espresso nelle forme della liturgia nel simbolo del Cristo crocifisso, basti pensare alle crocifissioni dell’Usignolo della Chiesa Cattolica. Poesie a Casarsa termina con la “Domenica uliva”, una trasposizione allegorica della liturgia della Domenica delle Palme.
Nel 1945 Pasolini pubblica la sua prima raccolta poetica in lingua italiana, Poesie, e nello stesso anno appaiono i Diari. In entrambi prevale l’ispirazione leopardiana appartenente alla sua prima formazione poetica. Nel 1949 lo scrittore pubblica la sua seconda raccolta di versi friulani “Dov’è la mia patria”, dopo sette anni dall’apparizione di Poesie a Casarsa. In essa compaiono nuove voci, nuovi protagonisti, nuovi temi, legati soprattutto alla militanza nel Partito Comunista. La dimensione marxista si confronta con una nuova dimensione collettiva e sociale.
Il romanzo “Il sogno di una cosa” (Titolo originario “I giorni del Lodo De Gasperi”) pubblicato nel 1962, si presenta come un romanzo storico-politico diviso in due parti, ove è presente la continua ed esasperante lotta dei braccianti friulani contro gli agrari e l’adesione dei giovani protagonisti ad un comunismo vissuto in maniera molto entusiasmante.
Il libro “La meglio gioventù” è costituito da un’ampia scelta di poesie friulane già edite e numerose indite, diviso in due volumi, all’interno dei quali il paesaggio ideale dei campi friulani è sostituito dall’inferno delle borgate romane. Pier Paolo Pasolini è stato il primo a dare voce al mondo del sottoproletariato romano, e la sua morbosa attenzione nei confronti di questa categoria lo portava, infatti, a perdersi nelle strade abbandonate della Capitale, a frequentare i luoghi isolati dalla civilizzazione.
Il poeta amava sporcare le sue scarpe di fango, ritrovarsi nel bel mezzo di una periferia, per toccare con mano l’umanità, come quella descritta e perduta di cui parla in “Ragazzi di vita”, e che rivendicava, fino a cercarla personalmente. Roma, dopo l’espulsione dal Friuli, diviene infatti la nuova Casarsa. Nel poemetto “Quadri Friulani”, composto all’interno delle Ceneri di Gramsci, riemergerà in maniera prepotente l’amore per il Friuli, soprattutto nella contrapposizione tra il paesaggio meridionale e quello settentrionale, tra la bellezza dei cieli della Pianura Padana e le assolate campagne romane. Ancora una volta si scontrano due generi letterari e due epoche della sua vita vissute in maniera diversa ma sempre con grande passione, entusiasmo e partecipazione.
Pasolini è stato anche un grandissimo critico letterario, munito di tre elementi che lo contraddistinguevano: passione, ideologia e stile. Non accettava il piacere di una lettura “disinteressata”. A suo avviso, un critico, non “adempiva a una propria funzione, se non si poneva e non risolveva il problema di una nuova metodologia”. Nel temperamento pasoliniano, tutto diventa un atto in cui intervengono una ricerca ossessiva di dimensioni nuove e una penetrazione violenta del testo, con l’immissione di umori e preoccupazioni morali, politiche, ideologiche, oltre che naturalmente, quelle letterarie.
La sua critica, si poneva in due fasi: una partecipazione morbosa e passionale alle vicende dell’autore, ed una fase razionale legata alla mera analisi del testo. Se nella critica di Pasolini la passione ha la sua moralità, l’ideologia risponde ad un’esigenza culturale precisa della sua epoca: anticonformista, progressista e senza una formazione stilistica antecedente. La critica pasoliniana gode di una tensione morale ed ideale, soprattutto nei suoi romanzi proiettati in un esame critico delle contraddizioni sociali e culturali del mondo del ventesimo secolo.
Si è parlato molte volte di un Pasolini marxista, ma egli, a mio avviso, non ha mai ceduto alle lusinghe di nessuna ortodossia. È pur vero che egli stesso aveva dichiarato che il marxismo poteva rappresentare una soluzione ai problemi più urgenti dalla società, ma contemporaneamente, non ci aveva mai creduto. La sua indecisione era di origine idealistica, come lo era la sua formazione culturale. Accettava i postulati speculativi del marxismo, ma potenzialmente, perché, nonostante il suo rigore materialista, sapeva fin troppo bene (e questo, lo tradurrà perfettamente nel cinema) che esisteva, oggi come all’ora, una certa irrazionalità non ascrivibile a priori ad alcuno schema.
E proprio quell’essere fuori dagli schemi, ha relegato quell’uomo ad essere preso di mira dalla società italiana. Era divenuto un artista pericoloso, da tenere sotto mira. Dopo “Ragazzi di vita”, tutta la sua esistenza ha subito persecuzioni assurde. Al di là delle inclinazioni sessuali, l’Italia piccolo-borghese non ha mai gradito gli oltraggi al pudore pasoliniani. Né i benpensanti potevano digerire l’idea di letteratura del poeta friulano, ancorati a concezioni passate.
Negli anni ’60 e ’70, il lavoro di Pasolini si svolse in completa solitudine, senza l’avallo di partiti o chissà quali coperture intellettualistiche. E se per tutta la vita il suo obiettivo poteva essere una riscrittura della Divina Commedia, proprio il finale è stato una discesa agli inferi. Difatti, sebbene non fosse letteratura, Salò o le 120 giornate di Sodoma è un film infernale, dal quale, l’autore non ha fatto ritorno. L’autore scomodo, ideatore di versi dell’anima, probabilmente sapeva troppo.