6 settembre 1919: “Io credo necessaria l’azione. E sono pronto con i miei fidi”. Gabriele d’Annunzio.

Giova ricordare che dopo l’armistizio di Villa Giusti, ai fiumani invocanti l’annessione all’Italia, l’Intesa regalò quel presidio interalleato nel quale non mancavano persino soldati dall’Indocina, venuti a Fiume (a loro detta) “pour la civilisation”.

Le prime truppe italiane che entrarono in Fiume, accolte da un delirio di entusiasmo, furono i Granatieri. In un succedersi di Governi italiani, lo spasimo dei fiumani dovette subire alternative penose di fiducia e di scoramento e sfogarsi in ripetuti e vani plebisciti sempre inascoltati, sempre svalutati.

Ai fiumani sembrò che non rimanesse loro se non aggrapparsi disperatamente all’Esercito. E nulla trascurarono per vincolare a sé l’anima del soldato italiano, che non poteva rimanere insensibile al grido di quella ritenuta la città “olocausta”. La poca imparzialità delle truppe alleate, che più volte ed apertamente non mancarono di confortare le aspirazioni croate, portò alle sanguinose giornate del luglio 1919, in cui un gruppo di soldati interalleati brutalmente sfogò la propria animosità strappando, in pieno giorno, la coccarda italiana dal petto di alcune donne fiumane. Quello stupido gesto, di alcuni irresponsabili, provocò un tafferuglio, che andò rapidamente ingrossando fino ad assumere le proporzioni di una vera e propria battaglia.

L’episodio, non poteva essere considerato semplice cronaca, ma il Consiglio Interalleato, sfruttando inversamente gli avvenimenti, nominò una Commissione d’inchiesta nella quale a rappresentare l’Italia fu posto il Generale di Robilant. Questa commissione decretò, tra l’altro, l’equiparazione delle forze di terra e di mare interalleate, e decise di allontanare, in primo luogo, la brigata Granatieri. Un simile gesto, avrebbe tuttavia provocato tra la popolazione italiane pericolose sommosse. Fu allora ordito il tranello: i Granatieri sarebbero stati sostituiti da un’altra brigata italiana: così, una volta allontanati i primi, sarebbe stato infinitamente far partire i nuovi venuti. Riuniti tutti gli ufficiali a rapporto, fu loro comunicato l’ordine: la partenza sarebbe avvenuta alla mezzanotte del 24 agosto: in quel momento si insinua l’idea della ribellione.

Da quel momento, un gruppo di ufficiali del primo Battaglione, decide di non obbedire all’ordine. Sembrava ad essi troppo crudele, troppo inumano, sottostare ad una simile imposizione. Una loro commissione si reca dal Presidente del Consiglio Nazionale ed espone l’intenzione dei congiurati. Dopo aver ascoltato con entusiasmo, decide di non poter tuttavia prendere decisione alcuna senza interpellare in proposito anche i colleghi del Consiglio. La Commissione tuttavia non si scoraggia, ma si decide per la partenza. Il Battaglione, partito alle cinque del mattino dalla stazione di Mattuglie, sfilò lentamente sotto una pioggia di fiori offerti dalla popolazione locale. Il giuramento, che si pronunciava, rompendo l’aria, era uno solo: torneremo.

Ronchi

Un piccolo paese, sembra destinato a segnare un’altra volta la storia d’Italia: da Guglielmo Oberdan a Gabriele d’Annunzio. E’ da qui, che quest’ultimo, febbricitante, sofferente, ma indomabile, lancerà all’Italia e al mondo la sfida disperata: “o rinnovarsi o morire”.

Corre voce che la Brigata Granatieri debba rientrare a Roma ove è la sede di pace dei due Reggimenti. C’è chi dice che debba passare agli ordini del Generale Pannella, e trasferirsi nella zona di Postumia. La permanenza a Ronchi cominciava a sembrare momentanea. In una riunione del gruppo dei ribelli, dei “congiurati”, alla quale intervengono otto ufficiali subalterni, si legge e si sottoscrive il giuramento: “in nome di tutti i martiri dell’unità d’Italia; giuro di essere fedele alla causa santa di Fiume e di non permettere mai, con tutti i mezzi, che si neghi a Fiume la annessione completa ed incondizionata all’Italia. Giuro di essere fedele al motto: Fiume o morte”. Letto a voce alta, sottoscritto da ciascuno dei ribelli, chi giurava, teneva sopra la mano un pugnale. I fogli, erano già pronti per otto persone: Tenete Frassetto da Crocetta Trevigiana, Tenente Rusconi da Pavia, Sottotenente Grandjacquet da Roma, Sottotenente Brichetti da Brescia, Sottotenente Giatti da Modena, Sottotenente Gianchetti da Perugia, Sottotenente Adami da Udine, Sottotenente Meoni da Roma.

Il gruppo di ufficiali è pronto. Conserva il collegamento con Fiume e coi capi del popolo. Scrive ad alcune personalità italiane tra le quali Ricciotti Garibaldi e Federzoni. Il primo, non si degna nemmeno di rispondere, il secondo, invece, accoglie l’appello e promette di parlarne alla Camera dei Deputati. Si era pensato a Gabriele d’Annunzio, ma lo si sapeva affacendato nella preparazione del raid Roma – Tokio, chi lo credeva a Roma, chi a Milano, chi a Gioia del Colle. Nel dubbio, gli venne spedita una lettera, nella quale si diceva di “pensare all’Italia non ancora compiuta”.

D’Annunzio, in realtà, era a Venezia. Lo riferisce il capitano dei Granatieri Sovera, partito in congedo quei giorni. Per Venezia parte allora un ufficiale, simulando di recarsi a Roma in licenza straordinaria. Il giorno dopo, giunse la notizia: d’Annunzio aveva accettato di capitanare la spedizione.

Dopo un tentennamento iniziale, il Comandante, recuperato a Venezia, ottenute le rassicurazione degli uomini presenti per l’impresa, cominciò a dare ordini: “prenda la mia macchina, torni a Ronchi: di lì prosegua per Fiume. Ad Host Venturi dia la notizia che giungeremo in città nelle prime ore del giorno dodici. E la sera del dieci Ella sia nuovamente qui”, riporta il Tenente Frassetto. Il Gran Destino, stava per partire.

A volte però, proprio il destino si accanisce, e il Comandante d’Annunzio si ammala. Tuttavia, proprio quando si ha quella coscienza del dovere di compiere una missione storica, il poeta rassicura tutti: “domani sarò al mio posto”.

I camion erano a disposizione. D’Annunzio, in piedi di prima mattina, indossa la divisa di Tenente Colonnello dei Cavalleggeri di Novara. Da San Giuliano di Mestre si parte, a novanta all’ora con una potente Fiat. Pur sofferente, la tempra del Comandante non cede. Il dado era tratto.

La decisione

A mezzanotte gli autocarri previsti, non arrivavano. D’Annunzio, delirante per la febbre, fa preoccupare i ribelli. L’idea che il gesto patriottico potesse coprirsi di ridicolo, straziava gli animi di tutti. Il poeta tuttavia, aveva deciso: in caso disperato egli sarebbe partito comunque a bordo dell’automobile.

Quando si era giunti al culmine di una situazione disperata, un uomo prende in mano il destino dell’impresa: si tratta del capitano degli arditi Ercole Miani, Medaglia d’Oro, triestino e volontario di guerra. Assieme ai tenenti Keller e Beltrami, balza sulla macchina del Comandante, vola a Stressoldo; entra nella stanza del Capitano automobilista il quale dorme placidamente, e che, svegliato bruscamente, si trova puntata una rivoltella alla tempia. Miani pone una scelta drammatica nelle mani del sorvegliante: o i camion, o la vita. In un attimo, i mezzi vengono presi d’assalto.

Alle cinque antimeridiane del 12 settembre, mentre le prime luci dell’alba illuminavano il Carso, 287 uomini, con alla testa Gabriele d’Annunzio, muovono dal cimitero di Ronchi “colmo di fanti”, decisi a tutto, incontro all’ignoto.

Si attraversano i paesi, i 120 km che da Ronchi portano a Fiume. Qualche guasto alla ruote, qualche piccola riparazione. A Castelnovo, parla il Comandante: “Signori Ufficiali, il dado sta per essere tratto; ognuno di voi sia pronto a morire piuttosto che arrendersi. Quella che serviamo è la più bella causa che mai sia stata servita. Viva Fiume italiana!”.
Un Colonnello di Stato Maggiore arriva nel mentre nel Paese, scende, vede d’Annunzio, e a mala pena trova la forza di presentarsi. La corsa non si ferma.

Il trionfo

Si riprende la corsa. L’automobile dell’ufficiale di Stato Maggiore tenta di oltreppassare i camion dei granatieri, ma l’entusiasmo e l’astuzia dei conducenti glielo impedisce. Un generale, giunge subito dopo, tale Pittalunga, Comandante il presidio interalleato di Fiume.

D’Annunzio fa arrestare la sua automobile, il Generale scende, e gli chiede dove fosse diretto.
– A Fiume!, risponde il Comandante.
– Le ordino di retrocedere! – intima il primo.
– Non ricevo ordini da nessuno! – ribatte il secondo.
– Io debbo assolutamente imporglielo, anche con le armi.

Qui, d’Annunzio risponde con parole che entreranno nella leggenda: “Generale, se così è, Ella ha due mire: la mia Medaglia d’Oro e la placca di Mutilato, dia l’ordine di sparare!”.

Pittalunga rimane interdetto, balbetta parole sconnesse, perde la bussola, ma trova la forza di rispondere così: “No, Comandante, Lei non deve morire. Deve anzi vivere per la gloria e per l’onore d’Italia. Le dò la mia parola d’onore che non farò sparare”….

Il discorso viene interrotto da uno scatto della macchina, che parte all’improvviso, lasciando il Pittalunga intontito a godersi la sfilata di quella marea di truppa, che non vede se non Fiume. Alla barra un altro Generale tenta di opporsi al passaggio della colonna, ma un’autoblindata in un attimo leva l’impiccio: si slancia con forza contro il palo e lo manda in schegge. La via è finalmente libera. Truppe da tutte le parti si uniscono alla colonna: fanti, arditi, bersaglieri, artiglieri, cavalleggeri, borghesi, muniti di ogni sorta di armi. S’incontrano le prime avvisaglie di popolo, ma la grande massa è al bivio di Cantrida e Zamet, in quello stesso bivio che venti giorni prima aveva visto il furore e lo strazio dell’abbandono. E quando d’Annunzio entra in mezzo al popolo, è un delirio. Urla, pianti, agitare di mani, sventolio di bandiere. Sui muri di Fiume era ancora ben chiara la promessa del Poeta soldato: “Dite ai fedeli che la Fede sarà coronata”. La liturgia di un’impresa che aveva stupito il mondo, aveva avuto così inizio.

Sono le 11.45 quando D’Annunzio, senza colpo ferire, entra, finalmente a Fiume, alla testa di circa duemilacinquecento uomini. Sono acclamati come liberatori. Suonano le campane del duomo San Vito, di tutte le chiese, delle navi in porto. Come ad agosto. Allora salutarono la trista partenza dei granatieri. Oggi ne salutano il ritorno. Anche le ragazze fiumane sono per le strade. Alcune si sono anche armate, per dare appoggio alla legione fiumana di Host-Venuri. Abbracciano e baciano i liberatori. Una di loro, forse una ballerina, forse una prostituta, vestita solo di un tricolore con lo stemma sabaudo, viene portata in trionfo dai granatieri. Forse, è un volto noto.