
Cominciamo subito questo nostro editoriale dicendoci le cose fuori dai denti e senza troppe cerimonie. La morte del Generale iraniano Qasem Soleimani, avvenuta a Baghdad dov’era stato invitato per un funerale e successivamente per un colloquio col primo ministro iracheno Adel Abdul-Mahdi, a causa d’un attacco militare statunitense costituisce, né più né meno, un atto terroristico: perché come tale si configura l’assassinio d’un avversario da parte d’un altro paese per mezzo di un’azione di guerra non dichiarata. Anche se forse a Teheran qualcuno non sarà proprio così scontento per la sua dipartita, dato che alla fin fine Soleimani era stato mandato all’estero anche per non avvertirne troppo il peso in patria, resta il fatto che l’Iran si veda a questo punto costretto a reagire rendendo pan per focaccia e, conseguentemente, chi ha giubilato per l’uccisione del Generale iraniano, in Europa come negli Stati Uniti, dovrà pur accettare quest’elementare principio di reciprocità.
Per esempio, come in effetti già sta avvenendo in queste ore, l’Iran potrebbe iniziare a considerare alla stregua di “carta straccia” l’accordo sul nucleare da cui peraltro gli Stati Uniti dell’Amministrazione Trump erano già unilateralmente usciti, e oltretutto senza che nessuno in questo caso possa lamentare violazioni del diritto internazionale, dato che comunque ciò avverrebbe sempre mantenendo una collaborazione con l’ONU e l’AIEA (non si può dire lo stesso, per esempio, per Israele e per il suo “patrimonio nucleare” di Dimona).
Quest’invito a considerare la “reciprocità” vale ovviamente anche per il nostro paese, dove molto ha fatto discutere l’adesione totalmente prona e passiva di Matteo Salvini al killeraggio voluto da Trump, al punto da non far notare che anche il rivale Zingaretti ha dichiarato più o meno le stesse cose, pur camuffandole con un po’ di bizantinismi adatti al caso. Tanto per cominciare, ha destato un certo interessato scandalo il fatto che Mike Pompeo non abbia consultato il governo italiano sia prima che dopo l’azione militare compiuta in Iraq. Ora, considerando la più che consistente mole di soldati italiani impegnati in missioni all’estero (Afghanistan, Kosovo, Turchia sotto le insegne della NATO; Libano e Marocco sotto quelle dell’ONU; Mali e Somalia sotto quelle dell’UE; più altre operazioni, sempre in Libano ma anche in Libia ed Iraq), tale fatto costituisce indubbiamente un episodio molto grave. Fra l’altro, negli scenari afghano, iracheno e libanese i nostri militari sono proprio a contatto con le aree a netta prevalenza sciita, e a maggior ragione per questo motivo l’Italia avrebbe dovuto essere consultata dopo l’assassinio da parte degli Stati Uniti del Generale iraniano Soleimani.
Soprattutto, questa cosa dovrebbe suscitare forti indignazioni tanto nella maggioranza quanto nelle opposizioni, ma con toni ben diversi da quelli a cui assistiamo adesso: il governo, per esempio, anziché far notare la gravità d’un simile “schiaffo diplomatico” preferisce parlare della mancanza d’un “ruolo forte” dell’UE, che però in tutta questa vicenda non è proprio la parte direttamente più coinvolta o responsabile. In pratica è un diversivo, che evidenzia tutto l’imbarazzo di chi ne fa ricorso. Le opposizioni, invece, se la prendono col governo, come se fosse stata Roma a non chiamare Pompeo e gli altri alleati e non il contrario, e non c’è da sorprendersi che sotto sotto gongolino pure, non rendendosi conto che in simili casi tale schiaffo è diretto a tutto il paese, loro comprese, così come ai nostri militari all’estero, e non solo all’avversario al governo. Nel frattempo gioiscono per l’azione americana contro Soleimani, pur non avendo capito granché del contesto politico e regionale in cui essa è avvenuta e che a sua volta andrà a determinare. Va da sé che questo comportamento serva anche a qualificarsi o confermarsi presso l’alleato d’oltreoceano come i migliori dei partner possibili, con tanto d’unzione per una futura salita al governo dopo la vittoria alle prossime elezioni politiche: lo chiamano sovranismo, ma alla fine è sempre il solito ruffianesimo politico verso il padrone di sempre, col quale non si perdono occasioni per rammentare quanto s’è bravi a fare gli impiegati coloniali.
E tutto questo evidenzia, in ultima analisi, come tanto l’attuale maggioranza quanto le attuali opposizioni siano sostanzialmente ben al di sotto dal poter dimostrare una seria e reale capacità di governo, non riuscendo mai ad andare oltre ai sempiterni slogan e schemi “analitici” basati solo su “reazioni pavloviane”. Il vuoto pneumatico di cultura politica e di capacità critica viene così colmato dal solito atlantismo acritico, accompagnato da un atteggiamento servile e ruffiano verso l’alleato-padrone troppo potente e a cui non si può mai dir di no, da parte tanto delle destre quanto delle sinistre, che ormai sanno nutrirsi solo di questi “frutti avvelenati” che oltretutto si producono pure da sole.
Molto più interessanti, invece, sono gli indici di borsa: infatti, per quanto aleatorio, anche lo stato d’animo dei mercati in merito alla tensione in Medio Oriente merita qualche attenzione. Abbiamo per esempio visto un certo incremento del prezzo del petrolio, in particolare il Brent, e anche dell’oro, quest’ultimo ai massimi dal 2013 con una crescita pari al +2,3%. Che l’oro, bene rifugio per eccellenza, conosca in momenti come questo un aumento nelle quotazioni è più che logico, ed esprime la volontà di cautelarsi da parte di molti investitori, che siano realtà pubbliche o private. Anche l’aumento conosciuto dal petrolio è comprensibile, dato che le tensioni mediorientali coinvolgono proprio l’area che produce il maggior quantitativo d’energia al mondo.
Non andrebbe però sottovalutato come, quest’aumento, costituisca pure un gradito conforto ai paesi produttori di greggio e tra questi, tanto per limitarci alla regione in oggetto, figura l’Arabia Saudita che qualche mese fa aveva visto quasi dimezzarsi la sua produzione di petrolio a causa dell’attacco missilistico yemenita legato alla sua non proprio fortunata guerra contro lo Yemen: poter almeno in parte compensare la diminuita produzione con un maggior valore al barile del petrolio estratto, tutto sommato, proprio una cattiva notizia non è. Anche per l’Iran, che proprio a novembre aveva annunciato la scoperta d’un nuovo maxigiacimento e che deve fare i conti con le sanzioni comminategli dall’Amministrazione Trump, un incremento del valore del greggio non può che costituire una buona notizia. Tra l’altro, l’aggressione subita dagli Stati Uniti e costata la vita al Generale Soleimani ha anche ricompattato l’opinione pubblica interna, prima un po’ smagliata proprio a causa delle problematiche economiche legate alle sanzioni, e soprattutto ha messo in secondo piano gli elementi più moderati o riformatori a totale vantaggio dei falchi, di cui peraltro Soleimani era senza dubbio uno dei rappresentanti più forti o comunque più in vista.
Ora, proprio questo quadro può spiegare l’atteggiamento sostanzialmente cauto del governo saudita, che non ha minimamente plaudito all’azione statunitense contro Soleimani, ma che al contrario ha avvisato di non essere stato né informato né consultato in merito a tale decisione della Casa Bianca, e del pari la reazione irachena, dove il parlamento ha prontamente votato per l’espulsione delle forze armate straniere nel proprio territorio, cominciando proprio da quelle degli Stati Uniti. A tal proposito, Trump ha minacciato ritorsioni che si qualificherebbero in “sanzioni pesantissime”, non rendendosi però conto che ciò potrebbe trasformarsi nella ripetizione dell’errore già compiuto, qualche tempo fa, col Qatar, praticamente liquidato dall’oggi al domani dopo gli anni di grande amore con l’Amministrazione Obama e che oggi, essendosi viste chiuse le porte in faccia dagli Stati Uniti, è fra le braccia proprio di paesi come Iran, Russia e Cina. Spingere anche l’Iraq fra le braccia dei suoi rivali strategici, da questo punto di vista, potrebbe essere un errore dal prezzo piuttosto salato per Trump, molto più del piccolo (ma non poi propriamente piccolo, se guardiamo alla sua influenza regionale e al suo peso in termini di risorse energetiche e finanziarie) Qatar.
L’azione di fatto terroristica del governo statunitense ha avuto una serie d’effetti che non possono certo far piacere agli alleati od attori regionali. In primo luogo compatta intorno a Teheran gli sciiti degli altri paesi, destando lecite preoccupazioni sia in Iraq quanto in Arabia Saudita, paese che sta già facendo i conti con la presenza sciita in Bahrain e soprattutto nello Yemen, contro cui ha scatenato come già dicevamo una guerra d’aggressione che ha dimostrato d’esser tutto tranne che un buon affare. Ciò complica le possibilità di una trattativa volta alla distensione fra Riyad e Teheran, che pure si stava cercando in qualche modo d’abbozzare coinvolgendo proprio Soleimani (chiaramente non con molto piacere da parte di Washington e di Tel Aviv ma, come rivelato anche dal primo ministro iracheno Abdul-Mahdi, proprio per questo Soleimani avrebbe dovuto parlare con lui) e che tuttavia ora, e a maggior ragione, diventa paradossalmente ancor più necessario proseguire e rilanciare. In secondo luogo, costringendo l’Iran ad una risposta comunque commisurata, perlomeno come portata simbolica, all’attacco ricevuto, tende a smorzare gli effetti della diplomazia russa e cinese nell’area mediorientale, puntando persino ad incrinare almeno parzialmente il triangolo Pechino-Mosca-Teheran, dato che quest’ultima dovrebbe agire in una maniera che in un qualche modo la distanzierebbe dalle altre due.
Di fatto, quella voluta da Trump è un’azione che può scatenare, per via dell’imprevedibilità del metodo di “botta e risposta” che inevitabilmente comporta, anche reazioni molto gravi. Trump, a tal proposito, ha indicato tra gli obiettivi iraniani che potrebbero essere colpiti anche aree assolutamente non militari ma bensì civili come siti storici e culturali che non sono certamente un esclusivo patrimonio (men che meno strategico) dell’Iran ma piuttosto di tutto il mondo e di tutta l’Umanità. E ciò, va da sé, abbasserebbe lui e la sua Amministrazione allo stesso rango dei Talebani che distrussero i Buddha di Bamiyan o dell’ISIS che saccheggiò Palmira (o, perché la storia è giusto ricordarla per bene e per intero, dell’Amministrazione Bush che versò una bella colata di cemento sulle rovine di Babilonia).