Il suicidio di un giovane è un fatto tremendo, ma in genere viene solo annotato in una statistica, non fa notizia a livello nazionale. Il caso di Andrea Natali, il ragazzo di 26 anni di Borgo d’Ale, paese di 2.000 abitanti nel Vercellese, ha però attirato l’attenzione per una circostanza particolare, ovvero il fatto che nell’aprile del 2014 egli avesse già denunciato le violenze e le umiliazioni subite nell’officina in cui lavorava, che venivano tra l’altro documentate dagli autori su ‘Youtube’ e su una pagina di ‘Facebook’ creata allo scopo: la polizia postale aveva fatto togliere questi materiali dalla rete e poi trasmesso gli atti alla procura. Un ex collega di lavoro di Andrea era stato indagato, ma in seguito era stata chiesta l’archiviazione: visti gli ultimi sviluppi, la procura di Vercelli ora ha aperto un nuovo fascicolo, con ipotesi di reatro aggravate.
Le dichiarazioni rilasciate dal padre del giovane, Federico Natali, e dal suo datore di lavoro, Luca Giolitto, sono del tutto inconciliabili. Il padre racconta del 22 ottobre 2013, giorno in cui suo figlio rincasò sconvolto, incapace anche solo di raccontare cosa gli fosse capitato: da allora non andò mai più al lavoro e non gli fu più possibile neanche uscire di casa da solo. Diceva di temere che qualcuno gli facesse del male.
Il titolare della carrozzeria invece tenta di ridimensionare l’accaduto: non si tratta di bullismo, qui bisogna chiamare le cose con il loro nome. È vero che sono state scattate foto ad Andrea da parte di altri dipendenti, ma non si tratta di immagini violente, bensì di scatti goliardici come accade in qualunque posto di lavoro”. Ma il padre non ci crede, afferma di aver visto alcune foto che andavano già oltre lo scherzo innocente, ma che la polizia non gli avrebbe permesso di visionare le immagini più pesanti.
Non possiamo sapere a chi credere, ma tentiamo di attenerci ai fatti conosciuti: dopo l’accaduto Andrea stava male, era depresso e per questo seguito da una psicologa, che lo avava convinto a denunciare tutto. Nei casi in cui una vittima prova molta vergogna (l’esempio più classico è quello dello stupro), riuscire a denunciare gli aggressori ha anche valore terapeutico, poiché permette un’interpretazione diversa della situazione, che non viene più spiegata con lo scarso valore che il soggetto si autoattruibuisce, ma con la crudeltà altrui. Un altro fattore che può avere un valore terapeutico in situazioni siffatte è che si giunga alla condanna degli aggressori: nel caso in questione ciò non si è però verificato. Andrea non si è mai ripreso del tutto, fino ad arrivare al gesto estremo del suicidio, impiccandosi nella sua camera da letto.
I giornali hanno pubblicato questa frase, postata su Facebook da un dipendente della carrozzeria: “Andrea è stato un nostro collega e mai nessuno gli ha fatto del male. E’ sempre stato un ragazzo chiuso e particolare e chi l’ha conosciuto lo sa, ma non per questo trattato in modo diverso da nessuno di noi”.
Ora è difficile, forse impossibile, dire se lo sventurato sia stato, come hanno scritto diversi giornali, “ucciso dai bulli”. Emergono invece alcune domande: un ragazzo “chiuso e particolare” è da trattare come tutti gli altri, oppure con una speciale delicatezza?
Da ciò che si è potuto leggere sulla stampa risulta che i colleghi che avevano preso di mira Andrea lo chiudessero nei bidoni, gli infilassero dei sacchetti dell’immondizia in testa e poi gli scattassero le foto che poi finivano in rete. Chi decide se queste siano soltanto delle goliardate oppure atti di violenza con effetti psicologici devastanti?
E se si tratta di goliardate, non sarebbe meglio esentarne chi è “particolare”, termine che in realtà non significa niente (ognuno, per il solo fatto di essere un individuo unico ed irripetibile, è “particolare”!) ma si usa per indicare chi è più fragile? Nel linguaggio corrente esiste poi un sinonimo, politicamente scorretto, che si usa per riferirsi, spesso con intenti denigratori, a chi si riconosce come fragile e questo termine è “sfigato”.
Poiché, come detto, siamo tutti particolari, una battuta o uno scherzo che non dà troppo fastidio ad alcuni, può comportare un vissuto inaccettabile per chi è più fragile, il punto dolente è che proprio questo tipo di persona viene spesso scelta come vittima.
Scherzare pesante è concesso con qualcuno di cui si conosce la solidità e col quale si è abbastanza in confidenza, in caso contrario è meglio lasciar perdere, tanto per motivi etici, evitare di ferire qualcuno, che utilitaristici, non farsi nemici. Nei casi più estremi c’è il rischio che la persona umiliata si possa suicidare oppure, seppur molto più raramente, vendicarsi con l’omicidio: se gli insulti razzisti di cui ha parlato ci sono stati davvero non lo sappiamo, ma è così che Vester Lee Flanagan, il giornalista di colore che a fine agosto ha freddato due ex colleghi in diretta tivù, ha spiegato il suo gesto.
Per chiamare le cose col loro nome, infine, crediamo sia errato definire il povero Andrea una vittima di bullismo, quanto piuttosto di ‘mobbing’, forma di molestia cronicizzata molto simile, che si distingue soprattutto perché avviene sul posto di lavoro. Fenomeni paragonabili sono stati riscontrati in tutte le situazioni caratterizzate da obbligatorietà relazionale, ovvero dove non si può decidere semplicemente di andarsene: in famiglia (es. nei casi di maltrattamenti da parte di coniugi, genitori, ecc.), a scuola, in carcere, in riformatorio, in caserma, sul posto di lavoro e addirittura in casa di riposo.