
Per prima cosa, la ringraziamo per il tempo e la disponibilità a rilasciare questa intervista.
1. Cogliendo l’Occidente di sorpresa, la Russia ha deciso d’intervenire in Siria. Quali sono le motivazioni tattiche e politiche che secondo lei possono aver dettato questa decisione, e quali possono essere le sue conseguenze sul piano pratico?
Negli ultimi mesi l’Esercito Arabo Siriano, sotto il comando del presidente Assad, stava perdendo terreno di fronte alla forza propulsiva dell’ISIS, un esercito che ha conquistato aree geografiche disposte sì a macchia di leopardo ma a cavallo tra due Paesi, con un “cuore” strategico nella grande area di Mosul, nel Nord dell’Iraq. Idlib, l’area di Palmira e la provincia di Homs erano assediate da tempo, e le altre città costiere rischiavano seriamente di crollare, isolando così Damasco.
La coalizione approntata dagli Stati Uniti non ha conseguito alcun risultato concreto: primo, perché le operazioni militari americane non potevano essere concordate con l’unica forza armata regolare presente in Siria, cioè quella di Assad, che Obama vorrebbe tutt’ora defenestrare; secondo, perché, come dichiarato ufficialmente dal Dipartimento alla Difesa in questi giorni, Washington ha proprie milizie di riferimento all’interno del fronte dei ribelli. Si tratta di gruppi, per così dire “rivali” dell’ISIS, ma destinati alla sconfitta se privati della capacità di sfondamento che l’ISIS garantisce anche a loro vantaggio.
L’intervento russo nasce sulla base di consolidati accordi bilaterali tra i governi di Mosca e Damasco, che risalgono ai tempi della Guerra Fredda. La decisione di Putin espande la dottrina antiterrorismo di Mosca oltre i confini “naturali” dello spazio post-sovietico, questo è vero. Tuttavia fa leva sulla presenza di un’installazione militare russa legalmente concessa (Tartus), così come l’intervento in Crimea era stato legittimato dalla presenza militare russa a Sebastopoli, ed è perfettamente coerente con la linea che il Cremlino ha sempre mantenuto sulla crisi siriana.
2. Ha anche lei l’impressione che l’intervento russo in Siria abbia modificato anche il comportamento dei media occidentali sulla questione, oltre ad aver costretto anche alcuni attori come la Francia a modificare le loro strategie?
Chiaramente, l’ingresso in campo diretto di Mosca ha gettato un sasso molto pesante nello stagno. Ha smosso le acque proprio nel momento di maggior incertezza della Casa Bianca e nella fase più sbiadita ed anonima nella storia dell’Unione Europea dal punto di vista della politica estera. Le due sponde dell’Atlantico sono ormai incapaci di pensare una strategia di lungo termine non solo per garantire la sicurezza, ma anche per cercare di rimediare agli errori commessi. Le mosse della Francia, poi, hanno toccato il ridicolo, con l’apertura di un’inchiesta a Parigi contro Assad per crimini contro l’umanità proprio nel giorno in cui cominciavano i raid anti-ISIS della Russia.
Chi lavorava per i grandi mass media occidentali avrebbe potuto intuire che la situazione in Siria fosse grossomodo la stessa anche quattro anni fa, ma parecchi osservatori, a destra come a sinistra, hanno preferito seguire un approccio ideologico-emozionale sull’onda delle cosiddette ‘primavere arabe’. Stavolta, però, la mitologia epifanica della ‘rivoluzione colorata’ si è inceppata, ha sbattuto la testa contro il muro che Russia e Cina hanno eretto intorno a Damasco coi loro veti al Consiglio di Sicurezza, ma anche contro un esercito ed una popolazione capaci di mantenere una compattezza sorprendente di fronte all’aggressione jihadista condotta dall’interno e dall’esterno.
3. Si dice che il Pentagono potrebbe intervenire a sostegno della cosiddetta “opposizione moderata”, da esso finanziata in funzione anti-Assad. A suo giudizio, ciò avverrà e in che maniera? E quali saranno le controreazioni della Russia e dei suoi alleati?
Gli Stati Uniti non interverrano in tal senso. Dopo i disastri in Libia e in Siria, il Washington Consensus è ai minimi storici persino in Europa, dove non sono pochi i gruppi industriali ad essere stanchi delle imposizioni americane. Inoltre, Obama è all’ultimo anno di mandato e non può certo avventurarsi in una guerra dai risvolti potenzialmente catastrofici non solo per il Medio Oriente ma per il mondo intero.
Poi, mi chiedo quale sia l’opposizione moderata. Questa del Pentagono è un’affermazione irresponsabile ma soprattutto inutile, perché non esiste alcuna opposizione moderata tra i gruppi in armi contro Assad. Il Fronte al-Nusra è legato alla rete di al-Qaeda, l’Esercito dei Mujaheddin è suo alleato, il Fronte Islamico, o al-Jabhah al-Islāmiyyah, è una coalizione di gruppi di matrice salafita, la Brigata islamista Ahfad al-Rasul, dopo lo scioglimento nel 2014, si è riciclata nell’Esercito Libero Siriano, che a sua volta, malgrado un secolarismo dissimulatorio di facciata, resta in buona parte legato alla Fratellanza Musulmana. E anche i curdi mantengono una visione settaria ed etno-nazionalistica che produce da decenni un’instabilità disastrosa per il loro infantile rifiuto a voler vivere in una regione autonoma sotto altri Stati sovrani, anche a costo di favorirne l’invasione e la distruzione da parte di potenze esterne, come fu nel caso dell’Iraq.
Nel XXI secolo un atteggiamento clanico e sciovinista del genere è del tutto inaccettabile. La Russia, uno Stato europeo “per nascita” ma asiatico “per crescita”, conosce bene la complessità di gestione delle aree multietniche e l’importanza del dialogo e della coesistenza sulla base della comune coscienza e appartenenza nazionale. Le parole di Putin durante la recente inaugurazione della grande moschea a Mosca ne sono un esempio lampante. Pensate che inferni estremisti sarebbero oggi il Tatarstan o il Bashkortostan se al Cremlino sedesse un conservatore europeo o americano. E’ evidente che, con le logiche proporzioni, l’idea nazionale laica, secolare, multiconfessionale e multietnica – in senso autoctono, ovviamente – di Assad in Siria trovi una particolare analogia in quella russa.
4. Gira anche un’altra voce, quella secondo cui anche la Cina potrebbe inviare propri consiglieri militari in Siria. Ritiene che la cosa sia probabile e, se sì, quali sarebbero le motivazioni che indurrebbero Pechino a compiere un simile passo? E quali sarebbero le conseguenze?
Pare sia quasi certo che la Cina invierà propri uomini in Siria. Ultimamente è girata anche la voce che la portaerei Liaoning si troverebbe al largo delle coste siriane. Sebbene quest’ultima indiscrezione abbia preso corpo negli ultimi giorni, non c’è ancora nessuna conferma ufficiale da parte del governo cinese. Il quotidiano israeliano Debka, che ha lanciato per primo lo “scoop”, come tutti i quotidiani, non è sempre affidabile al 100%. Tuttavia, stando alla logica e ad alcune dichiarazioni di ufficiali russi e siriani, ritengo che la Repubblica Popolare farà la sua parte nella guerra al terrorismo internazionale, svolgendo un ruolo attivo, anche sul piano militare.
Dopo lo scoppio delle ‘primavere arabe’, il terrorismo uiguro ha acquisito capacità operative preoccupanti, riuscendo a colpire anche al di fuori della regione dello Xinjiang, addirittura nel cuore di Pechino e a Kunming. L’attivismo di alcuni ambienti politico-terroristici turchi sulla questione uigura e le prove fornite dall’intelligence siriana sulla presenza di jihadisti uiguri tra le file dell’ISIS lasciano intendere connessioni internazionali sempre più inquietanti, e la Cina deve chiudere i conti una volta per tutte con questa piaga.
In fin dei conti, Mosca e Pechino nel 2001 crearono l’Organizzazione per la Cooperazione di Shanghai proprio partendo dal comune impegno anti-terrorismo in Asia Centrale. Si tratta solo di espanderne il raggio d’azione alla Siria e all’Iraq. Non è poco, direte voi. Ma non è ancora tutto, aggiungo io.