Per la prima volta nella sua storia post-franchista, la Spagna tornerà al voto appena sei mesi dopo le ultime elezioni generali, quelle del dicembre 2015, che avevano delineato uno scenario di instabilità politica assolutamente inedito nel paese iberico. Le trattative per formare un governo sono andate avanti mesi, ma alla fine Re Felipe VI ha dovuto prendere atto del fallimento delle consultazioni e ha indetto nuove elezioni per il 26 giugno 2016.
In questi mesi le vicissitudini sono state tante. Il Partito Popolare di Mariano Rajoy vinse le elezioni di dicembre, davanti al PSOE di Pedro Sanchez, ma senza ottenere minimamente i numeri necessari per creare una maggioranza, a causa del boom ottenuto dai due inediti partiti Podemos e Ciudadanos, l’uno incline a un populismo di sinistra, l’altro più sbilanciato a destra. Il parlamento vedeva quindi quattro partiti principali contrapposti, più la galassia delle formazioni indipendentiste delle varie Comunità autonome.
Né i socialisti né Podemos né Ciudadanos si sono mai detti favorevoli a governare insieme ai popolari, dunque Rajoy ha dovuto quasi da subito farsi da parte: la Spagna non è – finora – un paese abituato alle “larghe intese” tanto in voga in Europa (magari per sbarrare il passo ai presunti “populisti”). Il socialista Sanchez ha quindi cercato di costruire una maggioranza, corteggiando Ciudadanos e Podemos, che avrebbero potuto astenersi durante il voto di fiducia (in Spagna l’astensione favorisce un governo di minoranza). Da parte sua il leader di Podemos Pablo Iglesias ha proposto al PSOE un governo di sinistra, col sostegno di baschi e catalani, ma i socialisti non vogliono sentir parlare di un referendum sull’indipendenza catalana caldeggiato dallo stesso Podemos. Comunque, questo ipotetico governo di sinistra difficilmente avrebbe avuto i numeri necessari, dovendo contare sull’appoggio almeno esterno di Ciudadanos, partito invece inconciliabile con Podemos. Infatti, nel voto parlamentare di marzo, l’intesa PSOE-Ciudadanos (senza Podemos) per Sanchez premier è stata nettamente bocciata. Né un governo di centrodestra popolari-Ciudadanos sarebbe stato possibile, con il blocco delle sinistre e degli indipendentisti a fare muro contro. Da ultimo, un voto interno agli iscritti di Podemos ha respinto totalmente un’eventuale appoggio a un governo presieduto dai socialisti, con l’appoggio di Ciudadanos. Un estremo tentativo di conciliazione è stato fatto da Compromìs, partito regionale della Comunità di Valencia, sottoponendo al PSOE un programma da condividere con Podemos e Ciudadanos. Ma anche questo tentativo è andato a vuoto con grandissimo disappunto di Sanchez, che ha sempre sperato nell’appoggio esterno da parte degli uomini di Iglesias, e accusandolo di fare il gioco della destra. Una situazione che a noi italiani potrebbe ricordare le presunte trattative tra il PD di Bersani e il Movimento 5 Stelle all’indomani del voto del 24-25 febbraio 2013, con alcuni che tuttora accusano i pentastellati di aver “affossato” un governo “progressista”: in realtà il PD non perse tempo ad allearsi con il centrodestra e la coalizione di Mario Monti; invece in Spagna, come abbiamo detto, nessuno vuole (per il momento) sporcarsi le mani con un governo di grande coalizione.
Il crollo di un bipartitismo ferreo durato quasi quarant’anni coglie dunque di sorpresa la Spagna che dovrà tornare alle urne tra due mesi, a meno che entro la mezzanotte del 2 maggio non si trovi una maggioranza che investa un nuovo Presidente del Governo: ipotesi remotissima visti i veti incrociati dei partiti, la frammentazione e l’inconciliabilità tra le varie posizioni, soprattutto tra i liberisti di Ciudadanos e Podemos, che guarda a sinistra e potrebbe coalizzarsi con Izquierda Unida, storica coalizione imperniata sul Partito Comunista, uscita malamente dalle elezioni, con meno del 4% e solo 2 seggi conquistati.
Ma se qualcuno crede che il voto anticipato risolverà tutto, molto probabilmente si sbaglia. Stando ai recenti sondaggi, il Partito Popolare può confermarsi primo partito, ma non oltre il 30%; il PSOE invece rischia seriamente di essere scavalcato dalla coalizione facente capo a Podemos, sospinta fino al 25%, una manciata di punti in più dei socialisti, mentre Ciudadanos si attesterebbe sul 15-17%. Come si può vedere, le prossime Cortes rischiano di essere anche più problematiche di adesso e dovrebbero ripartire identiche trattative che si protrarrebbero per tutta l’estate: a questo punto non è difficile prevedere un intervento diretto dell’UE, già abbastanza preoccupata dal vuoto creatosi a Madrid, per formare il tanto sospirato e auspicato (a Bruxelles) governo di grande coalizione, capace di tenere lontano la pur sempre incognita di Podemos, partito che oscilla tra grandi proclami e moderazione. Iglesias punta, se non a vincere, almeno ad arrivare secondo per poter trattare da una posizione di forza con i socialisti, prendendo a esempio il governo portoghese di sinistra. Dall’altra parte, se i Popolari riuscissero a migliorare il loro risultato, potrebbero sperare di formare un governo di centrodestra con Ciudadanos.
La situazione rimarrà quindi incerta ancora per un po’ e riporta al centro della discussione il “pallino” prettamente europeista e liberista della “governabilità” e della “stabilità”, come se da elezioni democratiche debba uscire necessariamente un governo già fatto e pronto per eseguire le direttive imposte da fuori (visto lo svuotamento di poteri dei parlamenti in favore di UE e le costanti pressioni di “mercati”, FMI e simili). Matteo Renzi, twittando un proprio commento sull’instabilità spagnola, ha lodato la stabilità che lui stesso avrebbe portato in Italia. Ma è lampante come ormai nella quasi totalità dei paesi europei i partiti tradizionali siano in rotta: l’esempio più recente è il risultato del primo turno delle elezioni presidenziali in Austria; la Spagna, che continua ad essere fortemente colpita dalla crisi economica, non ha fatto eccezione, e adesso rischia di diventare ufficialmente l’(ennesimo) anello debole della catena europea. La Commissione Europea si starebbe preparando a sanzionare Spagna e Portogallo per la situazione del loro deficit nel rapporto PIL/debito pubblico, che hanno disavanzi non in linea con le aspettative.
Giulio Zotta