Per gli amanti della cronaca nera e della storia, quella di quest’oggi rappresenta una delle vicende nostrane più incredibili e tristi. È sufficiente un nome per capire tutto: via Caravaggio. E se poi aggiungiamo accanto la città, il mistero è subito svelato: Napoli.
Siamo nella ex capitale del Regno delle due Sicilie, allora. E l’orologio corre indietro fino al 1975. E il calendario dice che siamo nella notte tra il 30 e il 31 ottobre. Di horror puro per la famiglia Santangelo. Le vittime, allora, sono loro: Domenico, il padre, ex capitano della marina mercantile; Gemma, la seconda moglie, ostetrica; Angela, figlia di prime nozze di Domenico; Dick, il cagnolino.
Quello che succede, anche perché raccontato in svariate trasmissioni di approfondimento sulle reti nazionali e non, è notorio ai più. La famiglia era pronta a cenare, quando all’improvviso suona il campanello. Il capofamiglia apre, ma non sa che spalancherà la porta a un assassino che sterminerà tutti. Anche il piccolo a quattro zampe. Nessuno riesce a salvarsi dalla furia omicida di questo killer ancora senza nome dopo 45 anni.
Passano otto giorni. Otto lunghissimi giorni. Napoli si rende conto di questo incredibile fatto di cronaca soltanto l’8 novembre, quando la polizia, allertata da un parente di Gemma, entra in casa dalla finestra. Sentiranno un potentissimo fetore e vedranno una scena raccapricciante: una impronta di scarpa numero 42, mozziconi di sigarette, pietanze mai consumate, e sangue in ogni dove, di cui una lunga striscia proviene dal bagno.
Dove ci sono i cadaveri di Domenico, di Gemma e pure del cane. E Angela? Lei giace senza vita in un’altra parte della casa. È in camera da letto avvolta in una coperta piena zeppa di sangue. L’assassino si sarebbe “divertito” a tramortire le vittime, poi a sgozzarle, e a soffocare il cane con una coperta. Tutto con guanti in lattice. E, secondo alcune ricostruzioni e testimonianze, sarebbe rimasto in casa per almeno cinque ore dopo gli omicidi.
Le indagini, poi, hanno scoperto che dall’abitazione sarebbero scomparsi la pistola del padre, il diario di Angela e, ovviamente, l’arma del delitto. E persino la macchina di famiglia, che però un testimone giura di aver visto in piena notte guidata da un uomo grande, grosso e dalla capigliatura folta. Davvero era il killer? La polizia arresta un tale che si chiama Domenico Zarrelli, fratello di colui che aveva allertato le forze dell’ordine l’8 novembre. Grande e grosso, molti capelli, all’epoca dei fatti studente fuori corso e sempre perennemente squattrinato. Per lui, tra indizi per lo meno ambigui e altri che ne dimostrerebbero l’innocenza, inizia un lunghissimo incubo.
Condannato all’ergastolo in primo grado il 9 maggio 1978 – avrebbe commesso il fatto in preda a un raptus omicida e dopo il rifiuto da parte della zia di concedergli un prestito –, è assolto dalla Corte di Appello, ma secondo la Cassazione il processo è da rifare. Nel 1981, sempre in Appello, è assolto per insufficienza di prove, mentre secondo la Cassazione, quattro anni dopo, è da assolvere perché assolutamente estraneo ai fatti. Nel 2006 è risarcito con 1milione e 400mila euro. Ancora una volta, allora, come spesso accade, all’opinione pubblica è stato consegnato un mostro in prima pagina che tale proprio non era.
Si ricomincia da zero, allora. Ma anche cercando nella vita personale della famiglia, la soluzione non arriva. Nel 2014, però, la svolta per il delitto di Via Caravaggio sembra essere a un passo perché il Dna trovato sulle sigarette appartiene a Zarrelli e altri due ignoti, magari coesecutori del triplice delitto, ma per il principio del ne bis in idem in realtà non viene fatto assolutamente nulla. Il diritto, infatti, non consente di rimandare alla sbarra una persona già assolta pienamente per lo stesso reato.
La morale è sempre la stessa, allora.
Non è dato conoscere il volto della belva di via Caravaggio.
Non possiamo sapere chi e perché ha massacrato i Santangelo.
Non è possibile fare luce su questo macabro avvenimento della storia italiana.
È vietato pretendere giustizia, quindi.