Quante volte nelle trasmissioni televisive abbiamo sentito la fatidica frase “la svalutazione competitiva della ‘liretta’ italiana”, usata per lo più in accezione negativa, come critica rivolta ultimamente a tutti quelli che cercavano di mettere in dubbio la rigidità del cambio dopo aver accettato di entrare nel sistema Euro? A dire il vero, come suggeriscono vari economisti ‘eurocritici’, tra i quali Alberto Bagnai, ci sarebbe molto da dire sulle svalutazioni competitive della lira, perché, essendo l’economia basata sul concetto di ‘scambio’ e presupponendo che lo scambio esiste perché c’è una relazione tra soggetti ( o sistemi economici, nel nostro caso), allora a una svalutazione deve corrispondere una rivalutazione e a una rivalutazione deve corrispondere una svalutazione. Per cui, ci si dovrebbe anche chiedere se la svalutazione della lira fosse una conseguenza della rivalutazione sul mercato dei cambi del marco tedesco. A questa domanda lasceremo rispondere i competenti in materia ( per approfondire vi rimandiamo qui ); noi ci limiteremo a mettere in relazione il mercato dei cambi col mercato del lavoro.
In effetti, il mercato dei cambi segue la banale legge della domanda e dell’offerta: più aumenta la richiesta per una determinata moneta e più il suo prezzo sale, più la richiesta diminuisce e più il suo prezzo scende. Insomma, più la Germania esportava e più il valore del marco saliva a discapito della lira italiana, che era ( ed è ancora) il principale concorrente della Germania nel settore manifatturiero. Ciò permetteva all’industria italiana di acquisire nuovamente competitività e di aumentare le sue esportazioni, trovando sbocchi perfino nel mercato tedesco.
In quegli anni di ‘riforme del lavoro’ se ne parlava molto poco, anzi, erano gli anni delle grandi conquiste sindacali e allo stesso tempo erano gli anni in cui l’Italia si attestava come quarta potenza economica mondale (la seconda in Europa).
La flessibilità del cambio garantiva la stabilità del lavoro e ai prodotti italiani di essere comunque competitivi per prezzi nei mercati internazionali.
Ora però tutto è cambiato. Entrando dal 1979 nel sistema dell’ ECU ( European Currency Unit ) e poi dal 1999 nel sistema Euro, l’Italia, insieme agli altri paesi europei ha volutamente rinunciato gradualmente alla rigidità del cambio, fino a farne completamente a meno, e quindi ha rinunciato a riallineare le disparità economiche con i propri concorrenti attraverso la leva del cambio. Da quel momento in poi, l’unico modo per riacquistare competitività è stato svalutare il lavoro interno.
Pian piano si è sviluppata la necessità per le imprese italiane di cercare flessibilità nei rapporti di lavoro. Da li si è iniziato a parlare di ‘riforme del lavoro’.
Tutto è iniziato con la Legge del 24 giugno 1997, n. 196, il cosiddetto ‘pacchetto Treu’, che introduceva per la prima volta forme di lavoro avente durata temporanea, quali il lavoro interinale, co.co.co, apprendistato e tirocinio.
Il pacchetto Treu fu poi perfezionato dalla Legge 14 febbraio 2003 n. 30, nota a tutti come ‘Legge Biagi’ ed affiancò altre nuove tipologie contrattuali alle precedenti quali co.co.pro, somministrazione, lavoro ripartito, lavoro per intermittente, lavoro accessorio, lavoro a progetto, lavoro a chiamata ed altri ancora.
Ora, non è nostra intenzione fare di tutta l’erba un fascio e additare tutte le colpe per l’introduzione di queste tipologie di rapporti di lavoro ai cambiamenti avuti nella politica monetaria. Con il passare del tempo la società si trasforma e le necessità cambiano. La normativa nazionale, quindi, si è solo adeguata alle necessità della società e certamente, alcune di quelle tipologie contrattuali erano necessarie.
Tuttavia la sempre più rigidità delle valute ha contribuito a far maturare l’esigenza di trovare sempre più flessibilità nel lavoro, permettendo così agli imprenditori di risparmiare su tasse, salari e stipendi e mantenere egualmente competitivi i prezzi dei beni e dei servizi offerti. Ciò si spiega in special modo se consideriamo gli abusi fatti con certe tipologie di contratti come i co.co.co, co.co.pro e collaborazioni varie, che molto spesso hanno superato perfino i limiti consentiti dalle normative sopra citate, fino ad utilizzare rapporti di lavoro che in teoria sarebbero illegali, come le false partite IVA.
Con la crisi del 2008 questa esigenza di lavoro meno costosa e con meno vincoli è accresciuta. L’ introduzione dell’Euro ha ormai fissato i cambi monetari e ha vietato quelle oscillazioni consentite all’interno dell’ECU e che comunque davano una parvenza di flessibilità.
Ecco allora che la normativa nazionale sui contratti di lavoro cambia ancora, prima con la cosiddetta e più che mai discussa ‘Legge Fornero’ e poi, più recente, il cosiddetto ‘Jobs Act’, le quali tipologie di contratto hanno allentato di molto i vincoli e liberalizzato ancora di più la scelta per le imprese.
Il Jobs Act ad esempio ha liberalizzato del tutto a tempo determinato, cancellando tutti i vincoli previsti dalle norme precedenti.
Inoltre, per la prima volta, si è andati a toccare non solo la flessibilità in entrata, ma anche quella in uscita. Infatti, seppur la nuova legge propone cose interessanti e innovative, come la possibilità di assumere a tempo indeterminato i lavoratori che non abbiamo lavorato a tempo indeterminato nei 6 mesi precedenti oppure l’eliminazione di contratti precari come i co.co.pro, salvo eccezioni, a partire dal 1 Gennaio 2016, il Jobs Act è stato particolarmente messo in discussione per l’abrogazione dell’articolo 18 dello statuto dei lavoratori, che sanciva il diritto a non essere licenziati, se non per giusta causa, sostituendolo con un contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti.
La domanda che tutti si fanno a questo punto è la seguente: se consideriamo il periodo di crisi, perché facilitare i licenziamenti porterebbe a un aumento delle assunzioni? In effetti l’abolizione dell’articolo 18 sembra quasi una presa in giro, considerate le finalità per cui è stato fatto e le intenzioni dichiarate dal Governo.
Il Jobs Act comunque va nella direzione delle ‘riforme’ richieste dalla Troika e si ispira a modelli precedenti, tra cui rientrano il tedesco ‘Piano Hartz’ del 2002 e le più recenti riforme del lavoro attuate in Grecia e in Spagna, richieste sempre dalla Troika.
Senza ombra di dubbio, a un’analisi più accurata, la possibilità di licenziare il personale in modo più semplice può avere un unico scopo: quello di aumentare la domanda di lavoro e abbassare il prezzo dell’offerta. Perciò, il Jobs Act, sottintende far accettare ai lavoratori salari più bassi.
Si tenga conto che i recenti dati Istat che si riferiscono al mese di marzo ci dicono che su base mensile il tasso di disoccupazione risale al 13% registrando ben 52.000 disoccupati in più del mese precedente (+1,6%), mentre su base annua il numero dei disoccupati cresce del 4,4% pari a 138.000 unità (tasso disoccupazione +0,5%). Di contro il numero degli occupati registra un 55,5% con una contrazione dell’0,1% rispetto al mese precedente. Continua ad aumentare il tasso di disoccupazione giovanile che supera il livello del 43%. Perciò gli effetti positivi dei quali si vantava Renzi nei mesi precedenti sembrerebbero già svaniti.
Tutte le riforme che dal 1997 ad oggi ha interessato il mercato del lavoro possiamo definirle senza esagerare come ‘svalutazioni competitive del lavoro’ . Esse non hanno avuto altro scopo se non abbattere i costi di produzione così da poter offrire prodotti finiti a prezzi più competitivi.
Tutto ciò è stato possibile anche grazie alla rinuncia da parte dei Governi che si sono susseguiti della possibilità di usufruire dello strumento della leva monetaria e della flessibilità del cambio. Questo ha fatto sì che le politiche neoliberiste potessero essere presentate come inevitabili e necessarie, trovando perfino poche resistenze da parte dei sindacati, i quali sono stati costretti ad accettare compromessi volti al ribasso e a cancellare diritti consolidati.