salvini meloni

Era il 2 luglio di quest’anno quando, in appoggio ai manifestanti di Hong Kong (che cercavano di ripetere i fasti della “Umbrella Revolution” di qualche anno prima tentando per l’appunto di dar luogo ad una nuova “rivoluzione colorata”), la Lega di Salvini tenne un proprio “flash mob” dinanzi alla cancellata principale dell’Ambasciata Cinese a Roma. Ai più fini osservatori (non molti, per la verità) non sfuggì un’enorme e palese incrongruenza: la Lega che protestava contro la Cina, facendo sue le posizioni dell’Amministrazione Trump e dell’ideologo del sovranismo Steve Bannon viste come “esempio vincente da seguire”, era la stessa che in altri contesti invece tifava a favore della Russia, o che inveiva contro l’Iran o il Venezuela, ovvero contro paesi che con quella stessa Cina da tempo vantano un fecondo rapporto di vero e proprio partenariato strategico, presentandosi quindi a tutti gli effetti come suoi solidi alleati.

Le risposte che ci si potevano dare di un comportamento politico tanto “schizofrenico” potevano essere due: o i vertici della Lega (e i loro consiglieri) non masticavano granché di geopolitica e di politica internazionale in genere, accontentandosi dell’illusione che per farsi un po’ di “cultura” bastasse qualche slogan recitato a pappagallo o una mentalità da ultras dello stadio, oppure avevano capito molto più di quanto fossero disposti a lasciar credere e portassero avanti una tattica comunicativa volta a seminar confusione soprattutto fra gli avversari. Del resto, le due interpretazioni non si escludevano automaticamente a vicenda, ma al contrario potevano anche tranquillamente convivere insieme data l’eterogeneità che caratterizza non soltanto quel partito ma pure qualsiasi altro dell’Arco Costituzionale, e la relativa area politica e culturale (in questo caso, quella dei vari conservatori, sovranisti, euroscettici, populisti, e via dicendo). Del resto anche la stessa Amministrazione Trump, presa a riferimento un po’ da tutti i sovranisti occidentali, nei suoi quattro anni di vita ha portato avanti proprio questa tattica, e chi ne segue pedissequamente le mosse non rado (almeno parlando delle figure al vertice e di coloro che devono elaborare e suggerire le “linee guida”, soprattutto in termini di esteri, di strategia, ecc) riceve anche la “imbeccata” dei suoi vari “guru” ideologici e programmatici.

D’altro canto, che nella Lega la Cina non sia mai stata vista con favore è una storia vecchia, che risale addirittura alla segreteria del vecchio Bossi, quando Salvini era ancora ben al di là dal venire. A quel tempo il partito si chiamava ancora Lega Nord e correva solo nelle regioni del nord e del centro dell’Italia, di fatto raccogliendo il grosso dei suoi voti soprattutto al di là della fascia appenninica (il contributo di regioni come la Toscana, l’Umbria e le Marche era ben misero rispetto a ciò che la Lega raccoglieva solo in Lombardia e nel Veneto, sue vere e principali se non addirittura uniche roccaforti del tempo). Un grosso danno alla Lega di Bossi, nelle ormai lontane elezioni regionali del 2005, venne proprio da un imprenditore veneto, Panto, che fondò un partito chiamato Progetto Nord-Est. Portando avanti una campagna elettorale ancora più anticinese di quella leghista, la lista raccolse una forte percentuale di voti, tutti di persone che fino a quel momento avevano sempre votato per la Lega ma che erano rimasti un po’ delusi dalla politica del governo Berlusconi di allora, dove probabilmente la partecipazione del partito di Bossi era apparsa non abbastanza “incisiva”. Il partito di Panto successivamente venne meno, a causa della precoce scomparsa del suo fondatore, morto in un incidente; altrimenti, chissà, forse avrebbe continuato a crescere e a radicarsi fino a diventare un convivente ancor più scomodo per la Lega nel vasto e prezioso bacino elettorale del Nord Est.

Sicuramente quell’esperienza, in casa leghista, non è mai stata pienamente dimenticata e dopo quel primo campanello d’allarme i suoi vari leader locali hanno sempre cercato di fare in modo che in seguito non ve ne fossero altri. E’ anche per questo se la diffidenza verso i meridionali, che era il cavallo di battaglia della Lega dei primi anni, è ben presto stata messa da parte (del resto, molti elettori leghisti del Nord sono figli o nipoti di persone che in passato vi emigrarono lasciando il paese natio, al Sud), mentre i nuovi pericoli da guardare con ostilità sono stati identificati nelle persone di religione musulmana (arabi o africani che siano) e nell’Islam, nei cinesi e nella Cina e, non va dimenticato, pure in una certa visione di Europa, intesa in primo luogo come Unione Europea ed Euro.

Ciò, tuttavia, richiede anche delle capacità di “lettura” del mondo che si davanti. Per esempio, l’Islam non è rappresentato solo dall’Iran (che evidentemente ha la colpa di avere un governo non molto gradito agli Stati Uniti), ed oltretutto in quel caso è pure un Islam sciita; l’Islam, in Medio Oriente, è rappresentato anche e soprattutto da paesi come l’Arabia Saudita e il Qatar, un Islam in questo caso sunnita; e sono proprio questi paesi ad avere in casa propria un regime ancor più confessionale e discriminatorio verso i propri cittadini ed in particolare le donne, oltre a finanziare a suon di petrodollari la costruzione di moschee e centri culturali islamici in buona parte del mondo (cominciando proprio dall’Europa e quindi dall’Italia; ma su questo collegamento, guardacaso, la Lega non ha mai nulla da dire).

Ugualmente, ha poco senso immaginarsi Putin come una sorta di “principe cristiano” in lotta contro l’Islam, dato che nel suo paese vivono milioni di musulmani che ha difeso quando, nelle repubbliche russe del Caucaso come Cecenia, Daghestan, ecc, sono stati letteralmente invasi e presi in ostaggio da miliziani legati ad al-Qaeda e sostenuti in buona parte proprio da paesi come Arabia Saudita e Stati Uniti (qualcosa di molto simile a ciò che avvenne nella ex Jugoslavia, dapprima in Bosnia e pochi anni dopo anche in Kosovo: e in quel caso è giusto ricordare come la Lega fosse, insieme a Verdi e PdCI, l’unico partito ostile all’intervento NATO e vicino al governo serbo di allora). Addirittura, la Costituzione Russa riconosce e tutela, oltre al Cristianesimo, anche l’Islam e il Buddhismo come religioni nazionali, insieme ai culti sciamanici siberiani: non possiamo proprio immaginarci, dunque, Putin nei panni di un nuovo Zar “tutto trono ed altare”.

E il partenariato strategico che la Russia ha con la Cina, infine, dovrebbe farci capire come i due paesi abbiano fra di loro un legame che è persino più forte di quello che entrambi hanno, ognuno per conto proprio, con l’Europa o con gli Stati Uniti. L’idea, partorita dal duo Trump-Bannon e subito presa per buona da tutti i sovranisti, di poter portare al divorzio Cina e Russia (quest’ultima si dovrebbe a quel punto associare a Stati Uniti ed Europa in virtù delle “comuni radici giudaico-cristiane”) si rivela proprio per tali ovvie ragioni né più né meno che una “pia illusione”. Perché mai questi due paesi, che hanno un interscambio economico-commerciale di centinaia di miliardi l’anno fra di loro, e che collaborano a braccetto su vari dossier di comune interesse (dall’Asia Centrale al Medio Oriente, dall’Africa al Pacifico, dalla lotta al terrorismo alla sviluppo di tecnologie mediche, militari, aerospaziali, ecc, in piena sinergia, ecc) dovrebbero separarsi per divenire, nel caso della Russia, una mera gregaria o “partner di serie B” degli Stati Uniti e, nel caso della Cina, addirittura un “immenso paese paria” contro il quale verrebbe aizzato ed usato come “cordone sanitario” pure l’ex alleato russo? Sono idee piuttosto strampalate.

Tuttavia, il richiamo delle idee di Bannon è stato molto forte e per tale ragione ha avuto un’enorme ripercussione anche sulla mentalità dei sovranisti di casa nostra. Già a marzo di quest’anno, per esempio, la Lega si era mossa a livello di Parlamento Europeo per condannare le politiche del governo Conte, ritenute filocinesi, addirittura tali da costituire una vendita ad occhi chiusi del nostro paese a Pechino. Un’interrogazione alla Commissione Europea aveva chiesto lumi su tale modo di procedere del governo italiano, ed in quel caso la polemica si basava soprattutto sulla questione del 5G e dell’adesione al progetto della Nuova Via della Seta. Come se oltretutto il primo paese dell’UE che avesse aperto al progetto della Nuova Via della Seta non fosse poi stato proprio l’Ungheria guidata da Orban, “padre morale” dei sovranisti europei! Come sappiamo, comunque, indipendentemente dagli incontri che le nostre autorità nel frattempo hanno avuto sia col Ministro degli Esteri cinese Wang Yi sia col suo omologo statunitense Mike Pompeo, la questione del 5G continua ad essere in alto mare mentre per quanto riguarda la Nuova Via della Seta sono stati soprattutto i tedeschi ad approfittare dei continui rinvii e temporeggiamenti italiani (il porto di Amburgo ha rilevato gran parte di quelle quote di volume commerciale, oltre ad una forte percentuale di controllo del porto di Trieste). Nel momento in cui furoreggiava, anche più di oggi, l’emergenza legata alla diffusione del Coronavirus, in Italia la visione della Cina da parte dell’opinione pubblica (condizionata da buona parte del mondo politico) non era delle migliori; e a ciò contribuiva anche il “carico da 90” messoci dall’Amministrazione Trump che, trovandosi in crescenti difficoltà per lo stesso motivo, cercava proprio nell’aumento della tensione dei propri rapporti con Pechino un facile ed immediato capro espiatorio. Tuttavia, già quell’episodio, avvenuto nelle sedi alte dell’Unione Europea, faceva capire quanto ci tenesse fin da quel momento la Lega a portare avanti la propria campagna politica non proprio amichevole nei confronti della Cina.

A darle una mano, in questo senso, vi era comunque un fronte trasversale che spaziava da Fratelli d’Italia (partito che già a quel tempo stava conoscendo una crescita elettorale sempre più vistosa, peraltro proprio a danno della Lega, con l’avvio di una sorda competizione a chi meglio incarnava lo spirito sovranista nel centrodestra e nel più vasto panorama politico italiano) fino a parti importanti del centrosinistra come i radicali di +Europa o i renziani di Italia Viva, fino a parti dello stesso PD, per poi tornare nel centrodestra con Forza Italia, o ancora con forze politiche estranee ai due blocchi principali come ad esempio certe formazioni minori, anch’esse di professione sovranista, e di recente formazione (nate per esempio da scissioni dai 5 Stelle oppure con una genesi propria). Del grande attivismo di tutta questa ampia pletora ce ne siamo poi accorti nei mesi successivi, ad esempio proprio quando si sono di nuovo riaccesi i riflettori sulle vicende di Hong Kong, di cui già la nostra stampa e il nostro mondo politico si erano occupati l’anno prima, al primo divampare delle polveri. In primo luogo proprio con la manifestazione della Lega davanti all’Ambasciata Cinese del 2 luglio, a cui pochi giorni dopo è seguita anche quella dell’organizzazione giovanile di Fratelli d’Italia, che evidentemente non volevano farsi sottrarre quel per loro prezioso spazio di visibilità e che addirittura hanno alzato ulteriormente la posta invocando anche l’espulsione della Cina dal WTO. Immancabili, soltanto il giorno dopo, le polemiche e soprattutto i botta e risposta fra la stessa Ambasciata e il segretario leghista.

Dal canto suo, Fratelli d’Italia ci teneva a non lasciarsi rubare troppo la scena per il fatto d’essere pur sempre stato il primo partito ad occuparsi del tema con una certa puntualità: solo l’anno prima, per esempio, per l’esattezza il 28 novembre, aveva organizzato la videoconferenza al Senato col leader delle proteste a Hong Kong, Joshua Wong. Il convegno, presentato come “trasversale” per appartenenza politica, era stato organizzato insieme ai Radicali, anch’essi noti per non nutrire proprio un particolare amore per il governo di Pechino, e capitava in una data a dir poco simbolica, il 28 novembre (il giorno che precedette la caduta del Muro di Berlino, nel 1989). A presenziarvi, oltre agli esponenti radicali e di Fratelli d’Italia, vi erano anche esponenti della stessa Lega e di Forza Italia, oltre che del PD: insomma, un po’ tutta la quintessenza dell’atlantismo italiano. Immancabili, ovviamente, furono anche in quel caso i dissapori e le relative risposte nei giorni seguenti, con l’intervento anche di altre figure del centro e del centrosinistra, così come dei 5 Stelle, che a quel convegno o non vi erano stati o non vi avevano avuto un ruolo di spicco, e che a quel punto volevano “rimediare” dando manforte.

Insomma, si potrebbe dire già da questa “breve” cronologia che certi fatti avessero cominciato a manifestarsi già in tempi non sospetti. Del resto, anche dopo quei primi giorni di luglio che videro a breve distanza fra loro svolgersi quei due flash mob dinanzi all’Ambasciata Cinese a Roma, vi furono altre nuove polemiche, non meno importanti. Ad esempio, meno di un mese dopo, il 5 agosto, alla Camera veniva respinta dopo essere stata messa al voto una mozione presentata congiuntamente da Lega e Fratelli d’Italia in cui si chiedevano sanzioni ed una richiesta di risarcimento per danni legati al Coronavirus contro Pechino, passando attraverso la Corte Penale Internazionale. Ciò si rifaceva ad una misura analoga adottata pochi mesi prima dallo Stato USA del Missouri e che Salvini aveva individuato come un esempio da seguire, ipotizzando in quel momento (era maggio) una richiesta d’indennizzo pari a 20 miliardi di euro. Sempre rifacendo sue e riproponendo accuse già lanciate in passato e costantemente portate avanti da Trump e Pompeo, che definiscono espressamente il Coronavirus col nome di “virus cinese”, anche solo pochi giorni fa il leader leghista non ha esitato a riaffermare l’origine cinese del virus e ad attribuire a Pechino pesanti responsabilità nella sua diffusione. Ma ad ogni modo, come abbiamo ben capito, in questa sua lotta politica contro la Cina vi è un grosso fronte bipartisan, anche d’insospettabili, a fargli compagnia.