Qualche acuto analista, probabilmente, già intuiva che il “governo” in esilio del Dalai Lama, in piedi da decenni a Dharamsala, in India, fosse una creazione a metà tra simbolismo e contestazione, senza una reale base di esistenza. Eppure, sono poco note le macchinazioni e i conflitti politici presenti, latenti e delle volte aperti di questo organismo. Già le contestazioni emerse negli ultimi anni riguardo alla linea del XIII Dalai Lama (accusato da alcuni di “moderazione” e “ambiguità”, da altri di “corruzione”), hanno avuto un effetto domino notevole: basti pensare alle prese di posizione abbastanza dure del fratello del Dalai Lama in un suo libro autobiografico, dove mette in stato d’accusa le azioni del governo USA nei confronti del Tibet. Questa settimana, si sono avute alcune svolte molto sostanziali, considerando, soprattutto, il funzionamento e la credibilità del palcoscenico politico creato a Dharamsala, e le imminenti “elezioni” che dovranno rinnovare questo “governo”.

Qualche giorno fa, ha rassegnato le proprie dimissioni il “ministro” del Dipartimento di Informazione e delle Relazioni Internazionali, Dicki Chhoyang. Stando al “primo ministro” del governo in esilio, Lobsang Sangay, la decisione di Chhoyang è dovuta al fatto che vorrebbe correre alle prossime elezioni (alle quali non avrebbe potuto partecipare in quanto già funzionario del governo in esilio). Una spiegazione poco convincente, tuttavia, considerando la quasi nulla competitività delle elezioni del governo in esilio (accusato, anche da personaggi a esso legati, di mancare di qualsiasi trasparenza), oltre al fatto che le dichiarazioni del dimissionario ministro non danno alcun tipo di indicazione in tal senso: «La mia decisione è stata presa dopo un’accurata riflessione, tenendo presenti i nostri interessi collettivi e le nostre future sfide collettive». Secondo un rappresentante del governo cinese, Zhu Weiqun, presidente del Comitato della Conferenza Consultiva del Popolo Cinese sugli Affari Etnici e Religiosi, «le dimissioni di Dicki Chhoyang mostrano che il governo in esilio tibetano sta ridimensionando la sua forza e le dispute di lungo corso tra le varie fazioni si acuiranno ulteriormente, man mano che ci si avvicina alle prossime elezioni».

Stando agli osservatori dei conflitti politici del governo in esilio, in particolare analisti cinesi, sembra più probabilmente che si tratti di una rottura di natura schiettamente politica. Vari candidati sono contrati alla strategia del Dalai Lama, che considerano “moderata”, e premono su azioni di forza che attirino il sostegno maggiore di paesi occidentali. Tuttavia, la mancanza di alternative, l’effettiva impossibilità di altre fazioni di soverchiare l’autorità (politica e spirituale) del Dalai Lama, ha prodotto una serie di conflitti a catena che, con l’avanzare dell’età del capo religioso, rischia di far implodere la struttura. Altri punti chiave di rottura sono sulla questione della totale “indipendenza” del Tibet (che perfino il capo del lamaismo sembra volere accantonare), sul cosiddetto “Grande Tibet” propugnato dagli ultra-nazionalisti, ma anche sulla strategia da seguire con gli altri tibetani in esilio e quelli residenti in Tibet. Il lento declino di questa istituzione è tanto difficile da arginare, quanto sempre più lacerante.

Leonardo Olivetti