Recep Tayyip Erdogan

A meno di una settimana dal tentativo di golpe messo in atto da settori delle Forze Armate la situazione in Turchia è in piena evoluzione con un bilancio finora di 232 morti, 1541 feriti e, soprattutto, 100 ufficiali dei servizi segreti, 257 ufficiali ministeriali, 393 impiegati del Ministero della Famiglia e degli Affari Sociali, 492 addetti agli Affari Religiosi, 3.000 giudici e 15.000 dipendenti del Ministero dell’Istruzione rimossi dai loro incarichi.

Oltre a costoro migliaia di giornalisti, sindacalisti e altri esponenti della società civile sono stati fermati o arrestati.

Erdogan e i suoi fedelissimi dell’AKP non si stanno facendo sfuggire l’occasione per regolare moltissimi conti interni con la scusa dell’ “emergenza” post-putsch, dichiarata per i prossimi tre mesi, procedendo con spietata rapidità, a costo di pretendere che i numerosi seguaci dell’esule Fetullah Gulen siano stati complici e collaboratori dei golpisti, anche se molti indizi fanno dubitare della veridicità di questa ricostruzione, indubitabilmente però utile per gli scopi interni del Presidente-Sultano.

Rientrata l’emergenza del quasi-assedio alla base aerea Usa di Incirlik, i rapporti tra Washington e Ankara si stanno lentamente intiepidendo, con un minuetto tra le richieste di estradizione di Gulen e gli inviti americani alla “moderazione” nella persecuzione degli oppositori interni. Difficile, tuttavia, ipotizzare un passaggio sulla sponda opposta da parte di Erdogan, ovvero di una svolta a favore di Putin e della Russia: parliamo di uno statista che è passato con nonchalance dall’amicizia con  Assad al sostegno all’ISIS, dal patrocinio della “Mavi Marmara” per sfidare il blocco di Gaza al ristabilimento di amichevoli rapporti con Tel Aviv…

Ma basta avere un po’ di dimestichezza con la Storia per sapere che le purghe interne, specie quelle violente e sommarie, se rafforzano il potere cesaristico di chi le mette in atto, hanno anche il potere di erodere reattività ed efficienza degli apparati da esse attraversati; in parte perché si rimuovono funzionari con anni se non decenni di esperienza, in parte perché finiscono per coinvolgere persone magari estranee ai fatti in questione ma vittime di denunce per motivi di gelosia, invidia, concorrenza professionale.

In questo scenario Erdogan vede certamente rafforzata la propria posizione, ma ridimensionata la capacità della Turchia di proiettare il proprio potere nell’immediata arena regionale, compiendo un ulteriore passo verso quel processo di “pachistanizzazione” che avevamo intravisto in corso di sviluppo solo poche settimane prima del fallito Colpo di Stato.

Paolo Marcenaro