Yuan

L’inizio dell’anno è stato segnato da una forte volatilità dei mercati e di una tendenza ribassista dei principali indici mondiali. La crescita dell’Eurozona è pressoché assente, la disoccupazione rimane alta e la deflazione è ormai una realtà che frena l’economia e rende il debito ancora più gravoso di quanto già non lo sia.

Nei tempi più recenti, assistiamo inoltre al panico generato dall’introduzione del Bail-in, l’esacerbarsi delle sofferenze bancarie e la crisi che incombe sul sistema bancario europeo, da Monte dei Paschi a Deutsche Bank. Il momento drammatico vissuto dal secondo polo dell’economia mondiale dovrebbe bastare per dare, almeno in buona parte, una spiegazione a quello che sta accadendo sui mercati. Eppure, ostinatamente, i media cercano un capro espiatorio di comodo su cui scaricare la responsabilità di ciò che sta accadendo. D’altronde il governo parla, nonostante tutto, di un’Italia in ripresa. Va da sé che si scarichino su altri le responsabilità dei trend ribassisti e della sfiducia che si respira tra gli investitori.

Troppo spesso, nella fattispecie, si è parlato di un economia cinese che trascina verso il basso l’Europa, di una fantomatica crisi che imperversa nello Stato asiatico reo di esser cresciuto “solo” di un 6,9% in un anno. Ma quanto c’è di vero in questa crisi? E se fosse l’Europa a trascinare nel baratro la Cina?

A tal proposito citiamo Mark Mobius, responsabile del Templeton Emerging Markets Investment Trust, uno degli investitori più noti della regione: “I fondamentali in Cina sono, a nostro avviso, ancora eccellenti. Si tratta di uno degli Stati in più rapida crescita del mondo, nonostante abbia rallentato (…) gli sforzi del governo per mantenere la stabilità da un lato e per consentire un mercato più libero dall’altro è un equilibrio difficile da raggiungere”.

Come riferito dall’analista, la Cina mira a rafforzarsi liberalizzando l’economia e in particolare la sua moneta. Questo dovrà essere fatto a tappe, molto gradualmente, per rispondere al desiderio di stabilità richiesto dai mercati. Detto ciò, vista l’importanza dei cambiamenti, la volatilità sarà uno scotto da pagare ma non comprometterà la prospettiva di investimento verso la Cina1.

Il Paese ha in essere un ampio regime di controllo sulla circolazione dei capitali e si dimostra molto cauta nel smantellare queste limitazioni. Molte delle restrizioni sui flussi transfrontalieri di capitali sono state allentate nel corso del tempo, in linea con la promozione attiva del Renminbi come valuta internazionale2. Se da un lato questo processo potrebbe portare ad enormi benefici dall’altro le autorità sono ben lungi dal dare l’economia in pasto al libero mercato.

Gli Outlook 2016 del Franklin Templeton Investment sottolineano l’enorme contributo che può dare il settore privato all’economia di mercato cinese: “Le nuove politiche di liberalizzazione dei tassi di interesse possono riallocare il capitale all’intera economia, in particolare al settore privato, che ci aspettiamo sia il futuro motore di crescita.”3.

E’ opinione diffusa, inoltre, che i valori del mercato azionario cinese non debbano più di tanto intimorire; non riflettendo l’andamento dell’economia reale. Basti pensare alle imprese con controllo statale, che rappresentano i due terzi del mercato azionario cinese anche se sono responsabili per non più di un terzo del Pil.

J. Frenkel CEO di JP Morgan, una delle persone più autorevoli nel mondo finanziario si è recentemente espresso in tal senso: “Bisogna tenere presente che il mercato azionario cinese non è lo specchio dell’economia reale, quest’ultima è molto più grande e diversificata di quella rappresentata dal mercato finanziario”.4

Secondo il dirigente di JP Morgan, il mercato cinese non sta vivendo un tracollo finanziario ma una correzione dei loro valori. Come anche riferito da Shang-Jin Wei (Chief Economist alla Banca di sviluppo asiatica) questo non è sinonimo di crisi finanziaria ma è un comportamento abbastanza frequente dei mercati. In più, mentre nelle economie più sviluppate come Stati Uniti e Europa, molti investitori istituzionali – che tendono a focalizzarsi sui fondamentali di lungo termine – contribuiscono a stabilizzare i mercati azionari; Al contrario, i mercati cinesi sono dominati dagli investitori al dettaglio, che sono più propensi a perseguire guadagni a breve termine, aggravando così la volatilità e la creazione di una maggiore scollamento tra corsi azionari e crescita economica reale5.

Tra gli altri, anche il Fondo Monetario Internazionale, non sembra preoccupato dal rallentamento dell’economia del Dragone asiatico: “Prevediamo che la Cina contribuirà più di prima all’output mondiale, anche se la crescita sta rallentando. Per gli esportatori, questo significa che l’espansione del mercato cinese continuerà ad essere una grande fonte di futuri clienti”.

La Cina ha un record ineguagliato di successo nella riduzione della povertà nel corso degli ultimi tre decenni e mezzo; contribuendo per il 72 per cento della riduzione della povertà estrema mondiale oggi si appresta a formare un vastissimo ceto medio. Goldman Sachs, l’FMI, lo stesso governo cinese hanno la consapevolezza che la domanda da qui generata, trainerà non solo l’economia asiatica, ma di riflesso anche il resto del globo.

Per questo motivo i programmi di governo, sono sempre più indirizzati al sostenimento della “middle class”, dalla revisione del sistema pensionistico ad una più ampia copertura delle spese sanitarie; con l’obiettivo di incentivare al consumo e sradicare la propensione al risparmio tipico della cultura cinese, che attualmente frena la domanda interna.

Per sfatare il mito del tracollo cinese, è utile riprendere le parole del Premio Nobel per l’economia Joseph E. Stiglitz: “Il passaggio della Cina da uno sviluppo guidato dalle esportazioni ad un modello basato sui servizi e sui consumi interni delle famiglie sta avvenendo in modo assai più accidentato di quanto alcuni avevano previsto, con giravolte nei mercati azionari e volatilità del tasso di cambio che suscitano paure per la stabilità economica del paese. Eppure, per i suoi standard storici, l’economia cinese sta ancora avendo buone prestazioni – qualcuno potrebbe dire molto buone, con una crescita annuale del PIL prossima al 7% – ma le dimensioni del successo che la Cina aveva conosciuto nei tre decenni passati genera elevate aspettative”6.

Durante la crisi dei subprime, che ha colpito Paesi industrializzati e mondo occidentale, la performance dell’economia cinese è stata superiore alle aspettative, il che ha fatto affluire una enorme quantità di capitali nel mercato. Se da un lato l’ingente afflusso di denaro è stato un fattore propulsivo di sviluppo, dall’altro ha ostacolato il riequilibrio del modello di crescita del Paese. E’ bastato infatti una correzione dei rendimenti per provocare l’uscita di un buon numero di investitori. Bisognerà farsene una ragione, ma via via che il Paese ridurrà il gap con le economie più sviluppate, per effetto convergenza, anche i tassi di crescita cinesi (fino ad oggi una garanzia) si assottiglieranno.

Alcuni leggono la contrazione del settore manifatturiero (ai minimi da tre anni), come il responsabile del rallentamento della Cina. Seppur tale fenomeno possa generare paura, questo non è altro che il risultato della transizione di cui parla Stiglitz. La Repubblica Popolare Cinese avvicinandosi progressivamente ai Paesi più sviluppati, sta mutando il proprio modello di sviluppo, non solo liberalizzando alcuni settori dell’economia ma soprattutto orientandosi ai servizi. Da qui si spiega la contrazione del settore manifatturiero registrata negli ultimi mesi.

Il Finacial Times ha recentemente pubblicato le parole di Michael Hasenstab, gestore del Fondo Templeton Global Bond: “La crescita del settore dei servizi sta assorbendo il lavoro che viene perso dai settori tradizionali dell’industria pesante. Mentre la crescita complessiva della forza lavoro rallenta, l’espansione del settore dei servizi può essere sufficiente per mantenere la piena occupazione”.

Di questo parere è anche R. Lardy: “Molti credono – riferito alla Cina – che è in atto una crisi finanziaria ed economica che provoca ansia e panico in tutto il mondo (…) Ma la credenza popolare non è supportata dai fatti”.7

Nell’articolo apparso sul New York Times, citato recentemente anche da Goldman Sahcs, il ricercatore del Peterson Institute for International Economics, parla chiaramente di “falso allarme” riferendosi ai timori riguardanti la Cina.

L’economista fa notare come molti si stiano soffermando, erroneamente, sul rallentamento del settore manifatturiero ignorando l’evoluzione economica di cui si parla sopra. Una quota sempre maggiore di reddito, infatti, viene destinato a spese inerenti l’intrattenimento e altri servizi piuttosto che sull’acquisto di merci. Questo non è solo il segno di una avvicinamento alle nazioni più sviluppate, ma secondo Howard Wang, direttore della JP Morgan Chinese Investment Trust, farà fiorire tante altre opportunità di investimento con grandi prospettive pluriennali, in particolare nei settori della new economy quali: sanità, internet e la tutela dell’ambiente.

Secondo Lardy, la ristrutturazione dell’economia e la crescita del terziario contribuisce a sostenere i salari, i consumi ed a creare posti di lavoro non agricoli. Tutto ciò permette al mercato del lavoro di rimane sano, come testimoniano i 7,2 milioni nuovi posti di lavoro urbani.

Zhaopin.com, uno dei più grandi e più popolari siti web di recruitment in Cina, ha pubblicato recentemente il rapporto invernale per il 2015 sul mercato del lavoro cinese. Secondo lo studio, i dipendenti di 32 grandi città in tutto il paese sono stati pagati in media il 48 per cento in più rispetto lo stesso periodo del 2014.

La preoccupazione sull’economia asiatica, balzate agli onori della cronaca, investono immancabilmente anche le disquisizioni sul del debito cinese. Queste nuove inquietudini risultano pressanti, se accompagnate da un evidente contrazione delle riserve valutarie della banca centrale cinese, ai minimi dal 2012. Spesso si ignora però che, seppur sia stata utilizzata un ingente quantità di valuta a protezione del cambio, la Cina era, fino allo scorso anno, la prima detentrice di riserve valutarie al mondo. Questo non ha dunque compromesso la solidità finanziaria dello Stato e, come si nota dal rapporto tra riserve valutarie e debito estero, questo è diametralmente opposto rispetto a quello di altre realtà in dissesto economico negli ultimi vent’anni.

In questi mesi sono state mosse accuse alla Cina per una presunta svalutazione dello Yuan, vista da alcuni come politica aggressiva per rendere più competitivo il proprio export ai danni degli altri competitor. Noi Italiani ci abituammo a queste invettive, prive di fondamento, ai tempi della Lira, quando le nostre esportazioni facevano invidia a mezzo mondo ed eravamo la quinta economia del globo. La valuta nazionale ci permetteva di reagire agli shock e difenderci dalle politiche monetarie dei Paesi alla guida dell’economia mondiale come sta facendo oggi la PBOC. Ciò che con l’Euro oggi ci è precluso.

Tornando allo Yuan, è fondamentale capire che quello a cui stiamo assistendo è un deprezzamento della moneta guidato dal mercato, non una svalutazione in senso stretto. Da un articolo de Il sole 24ore: “la Pboc è intervenuta più volte per arginare la flessione del cambio, anche fissando in fixing in rialzo. Si può parlare di deprezzamento dello yuan, peraltro pilotato, ma non di svalutazione competitiva”8.

Dal grafico sotto, appare evidente che l’ancoraggio al Dollaro ha fatto apprezzare la moneta cinese da metà 2005 fino a fine 2013.

L’intento della Cina era quello di rispettare il Peg per dare la massimo credibilità alla propria valuta in vista dell’imporsi dello Yuan tra il paniere di valute di riserva (i Diritti Speciali di Prelievo) del Fondo Monetario Internazionale, sobbarcandosi l’onere di avere una moneta eccessivamente forte.

Dal momento che il Fmi ha aggiunto il Renminbi nel suo paniere di valute di riserva, a partire dal 15 dicembre, la PBOC ha consentito un deprezzamento dello yuan per sette giorni consecutivi (trovandosi poi a dover difendere il cambio da un eccessivo indebolimento utilizzando le riserve valutarie).

A proposito di questo, Mark Williams, capo economista di Capital Economics ha fatto un’importante considerazione: “a causa del rafforzamento del dollaro, il renminbi è aumentato significativamente di valore in termini ponderati. Eppure, ogni debolezza sostenuta dal renminbi rispetto al dollaro tende a essere interpretata come una ‘svalutazione’ e una causa scatenante delle preoccupazioni di mercato”.9

Ha trattato di questo argomento il Prof. Alberto Bagnai, padre del premiato miglior sito di economia italiano, che ha recentemente scalzato dal trono Ilsole24 ore.

“La Cina ha lasciato rivalutare il renminbi rispetto al dollaro, per un totale del 25% da giugno 2005 a giugno 2015. Ciò ha reso i prodotti cinesi meno convenienti sui mercati internazionali, soprattutto perché in Cina i prezzi sono cresciuti più rapidamente”10.

La pistola fumante è, secondo Bagnai, in mano alla BCE, rea di aver iniziato una guerra valutaria svalutando contro il Dollaro e di conseguenza contro lo Yuan ad esso ancorato.

“Un approccio che riflette la volontà della sua potenza egemone, la Germania, che inoltre, per interposta Bce, ha anche pilotato al ribasso il cambio dell’euro, in un disperato tentativo di dare ossigeno alle sue economie satellite (naturalmente, a spese altrui). La svalutazione dell’euro rispetto al dollaro è stata anche una colossale svalutazione competitiva rispetto alla Cina, cioè un secondo ostacolo posto dall’Eurozona sulla pista di “atterraggio dolce” dell’economia cinese”.

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Il grafico che vediamo sotto si legge all’opposto di quelli che precedono, un maggior valore di REER sta a significare una perdita di competitività dei propri prodotti. Il tasso di cambio reale (REER) esprime il valore relativo dei beni di un Paese rispetto ai 61 principali partner commerciali, considerando anche l’inflazione.

Come si nota, negli ultimi due anni, i beni cinesi sono diventati meno competitivi rispetto i concorrenti, mentre quelli europei, la cui linea tende verso il basso, sono più vantaggiosi, favoriti dalla svalutazione dell’Euro.

Che la transizione cinese, stia subendo il contraccolpo di una uscita di capitali è sicuramente vero. Per questo motivo, dopo anni di valuta eccessivamente forte i recenti aggiustamenti della PBOC hanno tentato di bilanciare un cambio stabile per fermare una fuga di capitali che effettivamente è in atto anche in Cina.

Il cambio cinese era giunto ad un apprezzamento insostenibile, dati i deflussi di capitale: qualcosa c’era da aspettarsi che accadesse. Questo è lungi dall’essere una svalutazione competitiva, ma una normale manovra difensiva.

Le autorità cinesi non avevano né hanno una vera alternativa: possono solo tentare di frenare il deprezzamento dello yuan, rendendolo “ordinato”. Per ottenere ciò, sono condannati a fare alcune cose: in primo luogo, comprare yuan e vendere dollari, per frenare il deprezzamento della propria valuta. Così facendo, però, le sue riserve calano.

Per arginare questi incontrollati movimenti di capitali in uscita dal paese, le autorità cinesi non possono far altro che impiegare parte delle riserve in valuta straniera in possesso della PBOC per frenare il deprezzamento dello Yuan. Il loro utilizzo è stato ingente, ma teniamo presente che la Cina può permettersi almeno altri due anni di “utilizzo delle riserve accumulate” a questo ritmo11. E d’altro canto, essendo “riserve” servono proprio a questo, essere usate quando la situazione lo richiede.

Da un lato, una continuativa e significativa prova di forza di questo genere rassicurerà i mercati sul pieno controllo che il governo cinese ha sull’economia nazionale, al netto dell’inevitabile volatilità; dall’altro, consentirà di arginare il suddetto deflusso di capitali, stabilizzando la divisa e calmierando le tensioni politico-economiche che rendere ancor più complesso di quanto già non lo sia il processo di transizione che il paese sta attraversando.

In un momento storico in cui l’Europa continua ad avvitarsi su se stessa e sulle sue politiche deflazionistiche ed autolesioniste e gli USA vorrebbero poter tornare ad alzare i tassi di interesse ma temono ricadute di livello mondiale (pare che Janet Yellen abbia già rivisto le prospettive rialziste paventate nel 2015 e sia pronta ad un nuovo congelamento del costo del denaro), la Cina pare essere l’unica superpotenza con le idee chiare sul modello di crescita che coniughi esigenze interne e non: la speranza, forse vana, è che anche gli altri player, invece di continuare a dibattersi in una rete fatta di neocolonialismo e mercantilismo (che non ha un futuro pacifico davanti) possano rinsavire ed affrontare la perdurante crisi con coscienza, prima che gli eventi precipitino definitivamente.

1 https://www.fundstrategy.co.uk/franklins-mark-mobius-volatility-is-here-to-stay/

2 The Renminbi’s Ascendance in International Finance. Eswar Prasad 2015

3 https://www.franklintempleton.com/forms-literature/download/IBS-YECOM

4 https://www.cbsnews.com/videos/jpmorgan-exec-sees-disconnect-between-slumping-stocks-and-real-economy/

5https://www.project-syndicate.org/commentary/china-stock-market-crash-false-alarm-by-shang-jin-wei-2015-09

 

6 China’s Bumpy New Normal, Joseph Stiglitz on 28 January 2016

7 Nicholas R. Lardy, “False Alarm on a Crisis in China,” New York Times

8 https://www.ilsole24ore.com/art/mondo/2015-08-22/se-pechino-smette-attenuare-shock-globali-081045.shtml?uuid=ACmsIFl

9 https://epochtimes.it/n2/news/la-cina-svaluta-lo-yuan-solo-per-mantenere-loccupazione-3144.html

10 https://www.asimmetrie.org/op-ed/la-guerra-delle-monete-lha-iniziata-la-bce-la-cina-risponde/

11 https://www.rischiocalcolato.it/2016/01/niente-svalutazione-competitiva-cina-pechino-pensa-grande-non-calcoli-bottegaio.html