C’è un personaggio che in questi ultimi anni ha completamente stravolto i canoni nel raccontare una partita di calcio trasformandola in un concentrato sublime di voli pindarici e paroloni ad effetto. La cosa anomala è che non stiamo parlando di un telecronista, di una prima voce, bensì di un commentatore tecnico, un ex modesto calciatore di Serie A, che risponde al nome di Daniele “Lele” Adani, quarantaquattro anni nativo della profonda Emilia (di Correggio patria di Luciano Ligabue per la precisione).
Alla radice di tutto: Federico Buffa
Faccio una piccola premessa: personalmente non ho nulla contro il Lele Adani persona, anzi la sua parlantina schiettamente emiliana e i suoi modi di fare tipicamente ruspanti mi fanno simpatia, simpatia che però svanisce non appena il buon Lele inizia a commentare una partita di calcio!
Venendo ai fatti concreti, iniziando a parlare del “fenomeno Adani”, per capire come questo onesto ex difensore di Serie A (Brescia, Fiorentina, Inter le squadre dove ha lasciato i ricordi più positivi) abbia decisamente cambiato il modo di commentare una semplice partita di calcio, infarcendola di tecnicismi Made in Coverciano ed enfasi pomposa e trionfalistica che sembra mutuata da una poesia di d’Annunzio a mio avviso dobbiamo partire da quello che può essere ritenuto a tutti gli effetti il padre putativo dell'”adanismo” (assieme al famigerato Conte Mascetti di Amici Miei) e cioè Federico Buffa.
Possiamo dire infatti che, così come Isacco discenda da Adamo, il Lele Adani commentatore calcistico sia nato da una costola del giornalista milanese, famoso per aver introdotto in ambito del giornalismo sportivo italiano il cosiddetto “storytelling” che possiamo prosaicamente tradurre come una trasposizione in chiave sportiva delle televendite in onda sui canali Mediaset condotte da luminari del campo come Giorgio Mastrota o dal “Baffo” Da Crema. Questi personaggi infatti avevano il compito di vendere determinate cianfrusaglie, dai materassi alle pentole, secondo la tipica metodologia dell’imbonitore: usare enfasi, paroloni, termini arditi per spacciare semplici pezzi di vetro per diamanti.
La stessa metodologia è stata usata, nel giornalismo, dal Buffa che, prima nel campo del basket (soprattutto NBA) e poi anche in quello calcistico, è riuscito a crearsi la fama di “grande narratore di vicende sportive” utilizzando un particolare registro stilistico, molto enfatico e pomposo, adatto a descrivere con tono epico grandi eventi o le gesta di grandi personaggi dello sport in una sorta di Iliade od Odissea contemporanea.
Limiti dell'”adanismo” (1): l’arte della supercazzola
La particolare bravura (e scaltrezza) di Buffa sta nel fatto che l’avvocato abbia saputo nei suoi show unire l’enfasi e la retorica su una struttura di racconto molto lineare e ben composta con riferimenti non inopportuni alla storia, alla filosofia e alla politica che possiamo definire come le classiche palline sull’albero di Natale. Ad esempio per narrare la storia di Maradona o Pelé abbiamo un inizio, uno svolgimento centrale (che è il succo del racconto) ed un epilogo che si presta bene alla narrazione epica e trionfalistica dello storytelling buffiano.
Ora possiamo facilmente capire come tutta questa sofisticata impalcatura vada letteralmente a farsi benedire in una narrazione episodica e a spezzatino come quella di una partita di calcio. La trasposizione enfatica delle tecniche buffiane nel commentare un banalissimo anticipo o posticipo di Serie A risulta infatti spesso alquanto patetico e fuori luogo. Buffa fa quindi bene a raccontare con termini enfatici le prodezze di assi come Michael Jordan, Pelé, George Best, Diego Armando Maradona o Alfredo Di Stefano, cioè personaggi leggendari dai quali l’ascoltatore si può aspettare gesta incredibili descritti con termini epici e magniloquenti. Adani fa male invece a sbrodolarsi in “covercianese” in salsa epico-d’annunziana con contorno di qualche supercazzola con scappellamento a destra per disquisire sulla capacità di “attaccare lo spazio” o di “leggere i tempi dell’azione” di gente come Kessie o Gagliardini.
Limiti dell”adanismo” (2): l’esterofilia
C’è poi un altro item tipico, oltre alla retorica grondante di supercazzole, comune sia dell’andanismo che del suo padre putativo, il buffismo: la smodata e pacchiana esterofilia. Tutto ciò che avviene al di fuori dei patri confini, anche le cose più assurde e fuori luogo, diventa di colpo un qualcosa per dirla alla Arrigo Sacchi di “straordinerio”.
Il parossismo di tutto ciò è stato raggiunto nel famoso “La garra charrua! L’ultima parola è degli uruguagi!” urlato da Adani (assieme alla sua fida spalla Trevisani) al gol decisivo dell’uruguaiano Matias Vecino in un Inter-Tottenham di qualche settimana fa. L’Uruguay, nella forma mentis del Lele Nazionale (ma non solo sua) è diventato così una sorta di Chiapas in salsa calcistica: un luogo mitologico, popolato da generali (con il Maestro galantuomo Tabarez che sostituisce il famoso Subcomandante Marcos!) e combattenti indomiti che al posto della mimetica vestono la maglia celeste. Un non luogo verso cui proiettare le proprie fantasie oniriche quando la realtà concreta parla di un sistema calcio, quello italiano ma non solo, divorato dalla corruzione e dal malaffare di presidenti, dirigenti, procuratori ed affaristi sempre più potenti.
Garra charrua e dintorni
Ma c’è anche dell’altro, gli entusiasmi onanistici dell’Adani sulla garra charrua presentano elementi tali da sfociare nell’antistorico.
La famosa garra è infatti sempre stata associata non alle edizioni della Celeste trionfanti negli Anni Venti o negli Anni Cinquanta bensì a quelle alquanto mediocri degli Anni Settanta-Ottanta dove l’Uruguay pallonaro era semplice sinonimo di anticalcio: gioco puramente speculativo fatto di retropassaggi al proprio portiere, botte da orbi in difesa e centrocampo ai danni degli avversari, e continue simulazioni quelle poche volte che l’arbitro fischiava qualche fallo agli uomini in celeste. Il picco della vergogna fu raggiunto ai mondiali del 1986 quando l’uruguagio Batista esagerò con la garra e fu cacciato per un fallaccio dopo appena cinquantasei secondi in Uruguay-Scozia un fatto che gente come Adani o altri cultori nostrani della garra o del “cholismo” si guardano bene dal dire!
A ciò aggiungiamo che solo con i successi dell’ultimo decennio targato Tabarez (un vero galantuomo sul quale però è stata fatta troppa retorica spicciola) il gioco tutto garra degli uruguaiani ha iniziato ad avere una considerazione meno negativa. A questo punto sorge spontaneo un dubbio: se la garra degli uruguaiani è leggendaria, con che termini dobbiamo allora descrivere il “casino organizzato” ideato da Eugenio Fascetti?
Per tirare le somme
In conclusione possiamo dire che il Lele Adani commentatore di cose calcistiche ha decisamente rivoluzionato il commento di una partita di calcio sapendo unire in modo assolutamente casuale il tecnico con l’epico: cioè il termine specifico da aula B di Coverciano abbinato con il volo pindarico volto a celebrare enfaticamente le prodezze di questo o di quell’altro giocatore.
Il problema è che questa tecnica, se utilizzata per gonfiare le prodezze di un giocatore del Sassuolo o del Genoa, finisca spesso per sconfinare nel ridicolo o nel patetico. Passata la moda del commento volutamente giocoso di un José Altafini, troppo poco tecnico e fin troppo scanzonato, o di quello in stile “manuale del perfetto allenatore” di un Beppe Bergomi, che sa unire termini in allenatorese ad una modalità espressiva ed una verve da impresario di pompe funebri, ecco quindi giunti all’ultima frontiera del commento tecnico griffato Lele Adani, l’unione tra il sapere di Coverciano e l’arte sublime della supercazzola: “Adani, come se fosse Adani, anche per il direttore la supercazzola con scappellamento…”.