La vicenda greca ha dimostrato definitivamente il vero volto dell’Unione Europea e in particolare del funzionamento della Zona Euro. Per la prima volta un governo nazionale, quello di Alexis Tsipras ad Atene, aveva cercato di risolvere la recessione economica facendola finita con le misure di austerità imposte dal potere politico, capeggiato dal governo tedesco di Angela Merkel e dal potere economico, la BCE che apre e chiude a discrezione i rubinetti della liquidità dei Paesi europei. Lunghi mesi di trattative, intervallati dal referendum del 5 luglio con cui i greci hanno rigettato a stragrande maggioranza le “medicine” della Troika che consistono in privatizzazioni, tagli a stipendi e pensioni e presunto rigore finanziario, hanno portato infine a un nuovo piano di aiuti ad Atene che molto probabilmente non vedrà tra gli azionisti il Fondo Monetario Internazionale, che rappresentava la parte “statunitense” della trattativa, favorevole a una maggiore flessibilità, ma solo per opportunità geopolitica, cioè per evitare lo scivolamento della Grecia verso Est, verso la Russia e la Cina, opzione che in realtà si è dimostrata molto più astratta del previsto, visto che nessun piano B era stato approntato da Tsipras per tornare alla dracma e visto che, a quanto pare, né Mosca né Pechino avessero dato la loro disponibilità a tale progetto.

A questo punto le sensazioni che si hanno sono due. Una è l’acclarato ridimensionamento, per non dire fallimento, del programma elettorale del governo Tsipras, che pur di restare nella Zona Euro (adducendo come motivazione che la Grexit era voluta dai falchi del rigore come il ministro Schauble e alcuni governi centro-settentrionali europei) ha accettato un piano anche più duro dei precedenti e soprattutto supervisionato dalle Istituzioni – l’ex Troika – che si prepara a tornare in pianta stabile ad Atene. Il primo ministro ha assicurato che non ci saranno tagli a stipendi e pensioni, e che gli aumenti dell’IVA saranno diversificati a seconda dei beni, mentre restano le privatizzazioni (dai trasporti alle isole, con il solo veto – ma quanto durerà? – sul settore elettrico) e molte altre misure che riportano la Grecia ai tempi del commissariamento duro e puro da parte della Troika.

L’altra sensazione che si ha è che l’Unione Europea sia un sistema irriformabile. Non parliamo di fallimento del progetto europeo, come fanno molti, perché niente fa pensare che questa Unione sia stata creata per la “felicità della plebaglia europea” (come ebbe a dire l’ex banchiere e consigliere dello Stato francese Jacques Attali), tanto più che da anni ci viene ripetuto che l’Euro è irreversibile (un po’ come il Terzo Reich destinato, nelle parole di Adolf Hitler, a durare tremila anni…). A questo aggiungiamo che l’Unione è stata costruita con i rigidi dogmi dell’ideologia liberista che com’è noto dal 1989 è stata presentata come l’unica possibile in un mondo senza alternative. Infine, la miopia dei dirigenti europei, la frattura che si è accentuata tra le aree più avanzate e quelle meno sviluppate, e la sudditanza geopolitica sempre più marcata dell’Europa nei confronti degli Stati Uniti, attraverso la NATO, hanno fatto il resto.

Tutto si può dire, quindi, tranne che l’Europa stia offrendo al mondo, e in particolare ai Paesi in via di sviluppo, un valido modello di unione politica ed economica. Le unioni di libero mercato tra Paesi che presentano notevoli dislivelli tra loro si sono rilevate quasi sempre deleterie, rievocando scenari coloniali che ormai sembravano finiti. Basta pensare al NAFTA tra Canada, Stati Uniti e Messico, con gli effetti su quest’ultimo e all’ALCA, tra USA e America Latina, progetto fortunatamente archiviato con l’arrivo al potere di Hugo Chavez in Venezuela, Lula in Brasile e Nestor Kirchner in Argentina. Sono proprio i Paesi sudamericani e caraibici, dove certo non mancano grandi disparità tra i vari Stati, che stanno costruendo nuovi modelli di alleanze, progetti per lo sviluppo comune e blocchi geopolitici, come l’Alleanza Bolivariana, il MERCOSUR e la CELAC. Dopo le giunte militari, i regimi fantoccio e la “larga noche” neoliberale degli Anni Ottanta e Novanta, quando il FMI si sostituiva ai governi nazionali non diversamente da come accaduto in Grecia e in tanti altri Paesi, l’America Latina sta vivendo anni di grande sviluppo ed espansione, grazie alle politiche dei governi di sinistra, socialisti, anti-imperialisti e peronisti, come in Venezuela, Ecuador, Bolivia, Nicaragua, Brasile, Argentina, che hanno ridotto povertà e analfabetismo e hanno lanciato nuovi piani industriali ma si sono anche contraddistinti per un grande attivismo internazionale all’insegna del multipolarismo e della collaborazione tra i popoli. Inoltre, soprattutto sotto l’impulso del presidente Hugo Chavez, è tornato d’attualità il secolare sogno di edificare la “Patria Grande” latino-americana che fu di patrioti rivoluzionari come Simón Bolívar, Francisco de Miranda, José Martí e José de San Martín. Liberandosi del dominio coloniale, sia quello più brutalmente visibile delle dittature e dei golpe in buona parte orchestrati dagli Stati Uniti che per decenni hanno considerato le Americhe il loro cortile di casa, sia quello più sottile delle oligarchie economiche e finanziarie fautrici delle manovre liberiste, la maggior parte dei Paesi latino-americani ha iniziato a collaborare sempre più strettamente, nel rispetto della sovranità di ognuno. La solidarietà che vige tra i vari Paesi sta impedendo il risorgere di ingerenze esterne, il pericolo di colpi di Stato, di guerre locali e instabilità, nonostante permangano ancora problemi e ci siano ancora tentativi di destabilizzazione anche violenta dei governi democraticamente eletti ma che l’Occidente ritiene scomodi come il Venezuela.

L’Europa, insomma, con le dovute proporzioni, tenendo ovviamente conto di un’infinità di differenze e di fattori storici, dovrebbe guardare con interesse al modello che si va costruendo in Sudamerica. Anche perché, a ben vedere, la situazione che sta lentamente portando alla desertificazione la Grecia e non solo, non è tanto diversa da quella in cui precipitò l’Argentina del cambio fisso dollaro-peso e dei “consigli” del FMI oppure la Bolivia e l’Ecuador negli anni immediatamente precedenti. Da questa situazione i Paesi interessati sono usciti rompendo le catene dell’eterno ciclo dei prestiti bancari dall’estero, tornando, come già avvenuto ai tempi di Cárdenas del Río in Messico e di Perón in Argentina, a garantire lo Stato sociale, la ridistribuzione della ricchezza e la sovranità nazionale. Il risultato è una crescita invidiabile, mentre la recessione europea si prolunga più di quella di altri Paesi sviluppati e rischia concretamente di cancellare decenni di conquiste nel campo dei diritti e del benessere. Il ciclo economico capitalistico sta colpendo l’Europa che per “competere” con le aree del mondo in crescita e le nuove potenze deve ridurre i propri standard di vita e di lavoro: l’UE sta assolvendo a questa funzione, con l’Euro che diventa più uno stile di governo che una moneta, che in quanto mezzo di scambio, dovrebbe godere di una certa flessibilità. Non a caso il progetto di una moneta unica per l’area sudamericana interna al MERCOSUR ha rallentato notevolmente, fin quasi a bloccarsi: non molto tempo fa il ministro degli Esteri dell’Ecuador Ricardo Patiño ha affermato che il gruppo di paesi sudamericani interessato ad adottare una moneta unica, vi ha praticamente rinunciato vedendo gli effetti che questa ha prodotto in Europa e in particolare sull’area meridionale. E questa è una riflessione che la dice lunga sulle differenze tra il progetto europeo e quello sudamericano e sulla rispettiva visione dei suoi leader. Da un lato un’unione monetaria e politica creata maldestramente per trasferire poteri dalle democrazie nazionali alle oligarchie, in balia dei trucchi della finanza, dall’altro lato Paesi che si sono riappropriati della loro sovranità, favorendo i popoli più che le multinazionali e costruendo alleanze sovra-nazionali solidali.

Per anni il Sudamerica ha rappresentato una pietra di paragone negativa, un sinonimo di inefficienza, demagogia, repubbliche delle banane. Oggi invece questi Paesi hanno molto da insegnare, sia ai paesi in via di sviluppo sia all’Europa che troppo spesso crede che al di là dell’Oceano Altantico esistano solo gli Stati Uniti da cui bisogna importare politica, cultura e quant’altro.

Cuba, il Venezuela, l’Argentina ed altri hanno salutato con entusiasmo l’arrivo al potere di Alexis Tsipras e la vittoria popolare nel referendum del 5 luglio; dopo il nuovo accordo però, le promesse di una “nuova Europa”, sembrano nettamente più lontane, ammesso che sia possibile una vera alternativa senza disfare prima l’attuale sistema monetario e non solo questo. Le repubbliche delle banane, oggi, si trovano più nell’Unione Europea delle banche usuraie e dei trattati capestro che nella nuova America Latina.

Giulio Zotta