La crisi politica del Libano ha origini che oramai si perdono nella storia del Paese dei cedri, ma ha subito un forte riacutizzarsi a partire dall’ottobre del 2019, quando il Libano fu attraversato da una forte ondata di proteste popolari. Questa situazione, dovuta soprattutto ad una condizione economica disastrosa e ad una sfiducia generalizzata nei confronti del sistema partitico, ha portato alle dimissioni del primo ministro Saʿd Ḥarīrī, con uno stallo di tre mesi prima della nomina del nuovo capo del governo, Hassan Diab, entrato in carica il 21 gennaio 2020.

La nomina di Diab non ha portato miglioramenti per la popolazione libanese, che anzi ha subito le gravi conseguenze del Covid-19 ed un ulteriore shock con la tristemente nota esplosione del porto di Beirut, il 4 agosto 2020. L’incidente ha portato ulteriori danni economici al Paese, visto che dal porto transita il 60% del commercio estero libanese, ma ha anche messo in risalto le responsabilità della classe dirigente, portando alle dimissioni di Diab.

Le dimissioni di Diab hanno posto un fardello non di poco conto sulle spalle del presidente Michel Aoun, incaricato di trovare un nuovo primo ministro. Dopo i fallimenti degli ultimi due capi del governo, trovare un accordo tra le forze politiche e nominare un nuovo premier si è rivelata un’impresa ardua, infatti Diab è stato costretto a restare primo ministro ad interim per oltre un anno, a causa dello stallo politico. Solamente il 10 settembre 2021, Najīb Mīqātī, considerato come l’uomo più ricco del Libano, ha accettato l’incarico di traghettare il Paese fino alle nuove elezioni.

La nomina di Mīqātī, che già in precedenza aveva ricoperto questo incarico in due occasioni, non ha certo placato gli animi dei libanesi. Costui è infatti noto per ostentare la sua ricchezza e per possedere uno yacht lungo 79 metri, non certo il più indicato a rappresentare un Paese in cui le condizioni di vita della popolazione sono in continuo deterioramento, e dove l’82% dei cittadini vive al di sotto della soglia di povertà. Oltretutto, solamente un mese dopo la sua nomina, il nome di Mīqātī è apparso tra le pagine dei Pandora Papers, dalle quali sono emersi elementi che mettono pesantemente in dubbio la legittimità delle ricchezze della famiglia Mīqātī.

Non deve dunque sorprendere che le elezioni legislative del 15 maggio abbiano fatto registrare, per la seconda volta consecutiva, un’affluenza alle urne inferiore al 50% degli aventi diritto. Questo nonostante un forte proliferare di liste (ben 103) e il sostegno che le forze politiche libanesi ricevono da potenze straniere come l’Iran e la coppia Stati UnitiArabia Saudita.

Come riportato dalla stampa occidentale, il principale risultato di queste elezioni ha visto la perdita della maggioranza da parte del gruppo guidato da Ḥizb Allāh, il “Partito di Dio”, meglio noto in Italia con la grafia Hezbollah. Tuttavia, va detto che in realtà il partito sciita ha mantenuto tutti i suoi seggi, mentre ad essere erose sono state le rappresentanze delle forze alleate. La coalizione sostenuta dall’Iran, della quale fa parte anche il Movimento Amal (“Speranza”), ha ottenuto solamente 58 seggi rispetto ai 71 della precedente legislatura, perdendo dunque la maggioranza assoluta sui 128 scranni che costituiscono l’emiciclo di Beirut.

Se la stampa e i governi occidentali, insieme ai loro amici sauditi, hanno festeggiato la “sconfitta” di Ḥizb Allāh, e del suo storico leader Hasan Nasr Allah (in foto), in realtà questa situazione lascia presagire un ulteriore stallo politico, con grandi difficoltà per raggiungere una maggioranza di governo. A rompere gli equilibri sono stati soprattutto i candidati indipendenti non legati a nessun partito politico, che raggiungono il numero record di sedici. Le elezioni del 15 maggio hanno visto anche l’assenza del Movimento del Futuro (Tayyar Al-Mustaqbal), guidato dall’ex primo ministro Ḥarīrī, anche se alcuni membri del partito si sono candidati, ottenendo otto seggi.

Da parte loro, gli Stati Uniti non hanno trovato di meglio da fare se non operare le loro note ingerenze nella politica libanese, proprio in occasione di un momento così delicato per il futuro politico del Paese. Il 19 maggio, Washington ha comminato nuove sanzioni a persone vicine ad Ḥizb Allāh, compreso l’uomo d’affari Ahmad Jalal Reda Abd Allah ed alcuni suoi soci. Il governo statunitense ha accusato il partito sciita di aver “costruito una rete di imprese per nascondere le sue attività e generare fondi per le sue attività destabilizzanti, il tutto a scapito della responsabilità e della sicurezza pubblica in Libano e nella regione”, secondo le parole del funzionario del Tesoro Brian Nelson. In realtà, sono proprio gli Stati Uniti a giocare il ruolo di fattore destabilizzante, andando a colpire uno dei principali partiti libanesi proprio nel delicato momento della formazione di un nuovo governo.

Resta ora da capire quali saranno le sorti politiche del Libano. Sebbene la coalizione guidata da Ḥizb Allāh abbia perso la maggioranza assoluta, questa resta il blocco più numeroso all’interno del parlamento, con 58 seggi su 128. Le forze dichiaratamente anti Ḥizb Allāh, sostenute da USA e Arabia Saudita, hanno ottenuto 47 seggi, mentre 22 seggi appartengono alle cosiddette “forze del cambiamento”, ovvero deputati indipendenti o di liste che non sono riconducibili ai partiti tradizionali, con il sostegno anche del Partito Comunista Libanese (Hizbu-sh-shuy’uī-l-lubnānī; in francese: Parti Communiste Libanais, PCL). Infine, un deputato viene definito come “ambiguo”, secondo la ricostruzione effettuata da Al Jazeera.

Mentre Washington e Riyadh giocano a destabilizzare il Libano, esacerbando la competizione politica tra i due blocchi principali, la sterlina libanese, con il suo valore già decimato e in calo del 90% rispetto al dollaro statunitense, è ulteriormente crollata; le riserve della banca centrale continuano a calare, mentre i prezzi di benzina e cibo continuano a salire, anche a causa delle conseguenze indirette del conflitto ucraino.