Erano i primi mesi del 2008 quando i giornali titolarono “L’Italia è in recessione”. Mai prima di allora si era usato il temuto termine “recessione”, dopo decenni di crescita appena interrotti da brevi crisi che allora spaventavano tutti, ma che oggi sarebbero considerate assolutamente risibili al confronto con quella che è una “maxi crisi” non congiunturale e temporanea, bensì strutturale e durevole come un vero e proprio periodo storico di ampia portata.

In questi dieci anni sono probabilmente successe, a livello macro e microeconomico, più cose di quante ne siano successe nei precedenti quaranta (quasi tutte in negativo, almeno per quanto riguarda il benessere generale e non di casta). Un vero “sciame sismico” distruttivo, causato sia dalla naturale evoluzione del mercato (e dell’iperliberismo che attualmente lo regola), sia da attacchi di natura dolosa portati intenzionalmente contro la struttura economica e di welfare novecentesca. Il risultato è un paesaggio, a valle del vulcano, completamente mutato.

Vediamo un po’ cosa è successo in questo “decennium horribilis”. Anzitutto, va da sè, sono stati persi milioni di posti di lavoro, un’ecatombe. Dal 2008 ad oggi, il numero di coloro che risultano in cerca di occupazione è esploso di quasi l’80%, arrivando alla bellezza di 8 milioni di persone. Il Jobs Act renziano, mirato solo a distruggere le residue tutele lavorative, ha “ricreato” virtualmente appena 700.000 posti, ma sono quasi tutte posizioni che da stabili sono state trasformate in precarie.

La concentrazione in poche mani delle attività economiche ha portato alla distruzione del piccolo commercio: quasi 200.000 attività perse dal 2008, per un totale di circa 500.000 posti di lavoro polverizzati. Idem dicasi per la forza industriale nazionale, evaporata per circa il 25%: un quarto del nostro know how e patrimonio produttivo sparito. Milioni di famiglie hanno visto crollare il prezzo delle proprie abitazioni, pagate con enormi sacrifici, e il calo non è ancora finito: probabilmente non finirà fino a quando i prezzi non saranno così bassi (e la tassazione insostenibile) da attirare le fauci dei grandi gruppi di investimento, appostati come squali intorno alla preda.

Naturalmente, chi perde il lavoro spesso perde anche la casa, se non di sua proprietà: gli sfratti sono mediamente raddoppiati, in alcune città anche triplicati. Il numero di italiani che hanno rinunciato alle cure mediche (ormai quasi interamente a pagamento, dato il crollo delle prestazioni sanitarie pubbliche) aumenta di un milione all’anno, ed attualmente il numero totale si attesta a ben 13 milioni su 60 totali. Numeri impensabili anni prima. Alcune statistiche (OMS) danno addirittura al 20% la percentuale di italiani sofferenti di turbe dell’umore derivanti dal contiinuo stato di deprivazione e instabilità. L’ Istat, come da sua tradizione, attesta questa percentuale a un tranquillizzante 5%.

Crollo dei salari: il reddito delle famiglie è calato di 90 miliardi, solo nel periodo 2008-2014. Avete capito bene: novanta miliardi. E non calcoliamo gli ultimi cinque anni. Ormai al Sud si arriva a stipendi a nero di 350-400 euro per dodici ore lavorative giornaliere. Le cooperative imperano e (unico caso in cui la filiera si allunga, in un mercato dove essa si accorcia dappertutto falciando posti di lavoro) succhiano il sangue dei lavoratori, costringendoli a paghe da fame che raramente superano i 1000 euro. Un buon ingegnere al Sud ne prende 2000-2500 quando va di lusso, per una mole di lavoro inaudita. Ma è difficile che si risollevino i consumi di massa, quando la massa guadagna cifre al cui confronto le “mille lire al mese” di melodica memoria sembrano un patrimonio.

I costi di gas e carburante sono ormai tristemente noti. Siamo i più cari al mondo, prima di noi vengono di solito solo i Paesi scandinavi, che però hanno ben altra situazione economica. Tasse da Nord Europa, stipendi cinesi. L’Italia è sempre più avvitata in una spirale senza fine. Gli asset faticosamente conquistati dalle famiglie italiane in decenni di lavoro, vengono pian piano divorati dal credit crunch e dalla spesa insostenibile per i servizi essenziali. Da quest’anno, sparirà il mercato agevolato per l’energia elettrica, con il totale passaggio ai soggetti privati: in media si parla di un aumento intorno al 15-20%. L’acqua, nonostante un referendum contrario, è ormai in mani private. Come si potrà mai risollevare un Paese in cui sui servizi essenziali si crea profitto, quando questi dovrebbero essere gestiti dallo Stato a prezzi calmierati, lasciando libere risorse per i consumi privati?

Potremmo, con questo semplice articolo, continuare a sciorinare dati, incrociarli e citare ogni singola fonte sino a domani mattina, ma il dato di fondo che ne esce è assolutamente incontestabile: dalla recessione non siamo MAI usciti. Né sono esistite “crisi finite” e “riprese” o ripresine, semplicemente per il fatto che il processo in atto è unitario e ancora in pieno svolgimento.

Siamo difatti nel corso di una lunghissima stagnazione, per alcuni addirittura secolare, per altri meno apocalittica ma non durevole meno di altre decine di anni. Stagnazione accompagnata da una spinta esasperata verso l’ottimizzazione della risorsa lavoro e l’annullamento dell’economia diffusa a favore dell’economia di nicchia. Le forze che hanno governato sino ad ora hanno avuto una enorme responsabilità nell’ accettare supinamente tutte le dinamiche che hanno portato letteralmente a svendere e rottamare l’Italia, in cambio delle “riforme”.

Per cui, il terrorismo verbale di questi giorni è assolutamente ingiustificato. E’ risaputo ormai che sono dati degni di una guerra mondiale. Non sarà un misero “zero virgola” di calo del PIL a far cambiare i destini di un Paese che ha perso in dieci anni tutto quello che aveva costruito nei precedenti cinquanta. La popolazione inizia a capirlo: un buon viatico per iniziare una fase di ricostruzione che, non ne dubitiamo, sarà ancora molto, molto lunga.

Filippo Redarguiti