Jyrki Katainen

Finalmente in Italia si inizia a parlare di responsabilità sui crac bancari. La commissione parlamentare presieduta da Pier Ferdinando Casini è al lavoro da più di un mese e come potete notare, assistiamo dopo giorno dopo giorno a scaricabarili e nomi più o meno importanti accusati di aver fatto o omesso qualcosa.

Non vi tedieremo ora facendo il riepilogo di quello che già si dice su testate giornalistiche assai più importanti della nostra; quel che dovevamo dire l’abbiamo detto più volte cioè che ci sono responsabilità a vari livelli, sia all’interno delle banche, sia negli organi di vigilanza che non hanno fatto il loro lavoro e sia dai partiti politici (uno in particolare) e dal governo che hanno fatto prevalere interessi e accettato regole europee dannose.

Impossibile quindi che venga fatta totalmente giustizia e che tutti i responsabili vengano tirati in ballo.Troppi nomi, forse anche troppo importanti (in un nostro articolo su Mps parlammo di Antonveneta e nominammo un certo Mario Draghi che avvallò quell’acquisizione a una cifra spropositata).

Sullo sfondo resta la questione delle nuove regole sugli Npl che la BCE vorrebbe imporre e di cui noi abbiamo già trattato.

Passiamo invece a parlare di economia. Secondo gli ultimi dati Istat, parliamo comunque di stime preliminari sul terzo trimestre 2017,  l’economia italiana migliora e il nostro PIL è cresciuto dello 0,5% rispetto al trimestre precedente e all’1,8% rispetto all’ultimo trimestre del 2016. E’ la variazione più elevata dal 2011. L’Italia resta comunque fanalino di coda in UE e lo resterà anche nei prossimi due anni.

Anche il Fondo Monetario Internazionale, nel suo “World Economic Outlook”, vede in crescita l’economia italiana: il nostro Paese crescerà dell’1,5% quest’anno e dell’1,1% nel 2018. Inoltre, la disoccupazione dovrebbe calare dall’11,7% del 2016 all’11,4% del 2017 all’11% del 2018. Infine, secondo l’Fmi, il rapporto debito/pil calerà dall’anno prossimo e il bilancio dello stato dovrebbe raggiungere il pareggio di bilancio nel 2020.

Infine non potevano mancare i consigli: sarebbe il momento, dice sempre l’Istituto guidato da madame Lagarde, di “fare le riforme”, per aumentare la produttività e diminuire il debito pubblico.

Ovviamente non concordiamo affatto con queste ultime considerazioni, in quanto non vediamo la necessità di fare austerità per contrarre un’economia che cerca di ripartire anche se lentamente, ma non possiamo certo negare il buon momento che sta attraversando l’economia italiana.

E’ vero, siamo al culmine di un ciclo economico favorevole, è vero anche che l’Italia cresce meno degli altri Paesi, è vero ancora che questi numeri possono dipendere da tanti fattori e che per raggiungere i livelli pre-crisi la strada è ancora lunga, ma fa bene Gentiloni ad essere ottimista:

“Da ieri non siamo più il fanalino di coda in Europa. Dobbiamo essere più consapevoli che la sostanza del discorso non sono le cifre, ma è capire che il Paese s’è rimesso a crescere, anche se questa crescita non ha risanato le cicatrici della crisi. Non è la soluzione ma un’opportunità, dice alle classi dirigenti che offre una possibilità” – ha detto il Presidente del Consiglio qualche giorno fa all’inaugurazione dell’anno accademico dell’Università Cattolica.

Inoltre, i dati sulla crescita smentiscono completamente coloro (Renzi, Confindustria…) che annunciavano le piaghe d’Egitto con la vittoria del No al referendum costituzionale di dicembre scorso. Anzi, i dati stanno a testimoniare che meno “riforme” si fanno e meno il governo interviene con le sue ricette in campo economico e più l’economia ne beneficia. Il dubbio che siano proprio queste ricette sbagliate a frenare l’economia e a farci essere fanalino d’Europa al Fmi non potrà mai venire, ma a noi sì.

Questo dubbio trova minime conferme nel recente intervento del falco finlandese Jyrki Katainen a proposito dei nostri conti pubblici.

Che in Europa praticamente nessuno rispetti i parametri di bilancio del Fiscal Compact, tranne l’Italia, è cosa ormai risaputa. Eppure dalla Commissione Europea, Katainen ci viene a dire che il nostro Paese non fa mai il suo dovere come dovrebbe, la nostra situazione economica non migliora affatto, che i conti pubblici non sono mai in ordine e che è necessario che “i cittadini sappiano la verità”.

Il 22 novembre verrà pubblicata un’analisi parziale sulla legge di bilancio. Il giudizio finale arriverà soltanto a maggio del 2018, come da copione. Quest’anno, tuttavia, in primavera si terranno le elezioni politiche e il giudizio della Commissione UE potrebbe certamente avere valenza politica.

Il Vicepresidente della Commissione, quindi, ci tiene a far sapere che l’Europa è pronta a non fare alcun tipo di sconto né a questo governo e né al prossimo e che nei conti pubblici il saldo strutturale, cioè il disavanzo di bilancio corretto per gli effetti variabili del ciclo economico sulle componenti di bilancio e per gli effetti delle misure una tantum, si discosta dalla road map concordata.

Aspettiamoci dunque una richiesta di correzione finanziaria dopo le elezioni.

Dato tutto questo, come lamentarsi dell’ascesa di partiti e movimenti di tendenza euroscettica e radicale? In Italia l’unica forza politica che può dirsi ancora euroscettica è la Lega Nord che prenderà sicuramente tanti voti e che potrebbe addirittura vincere e andare al governo in coalizione con Forza Italia e Fratelli d’Italia. Ma proprio l’alleanza con il Cavaliere potrebbe frenare i progetti leghisti di uscita dalla moneta unica, o comunque potrebbe rallentarli molto. Il Movimento 5 Stelle, invece, si è a mano a mano omologato all’establishment rinnegando programma e elettori in più di un’occasione, ultima è la visita di Luigi di Maio a Washington in cui ha ribadito la sua fedeltà agli USA. Senza dimenticare che nell’ombra il caro David Borrelli, dopo essere stato l’artefice dell’accordo (fallito) in Europa con l’Alde, ora chiede di “incentivare la popolazione a fare lavori meno stabili”. Ma a parte questo, forse a torto, anche il M5S resta comunque un movimento considerato pericoloso per la stabilità europea.

Come vorrebbe l’Europa combattere la deriva populista, tolto che sul piano delle regole e dell’economia non devono affatto cambiare? Ce lo spiega un articolo di POLITICO: il Parlamento europeo progetta di finanziare una campagna elettorale contro gli euroscettici per le prossime elezioni europee del 2019.  Insomma, i soldi delle tasse degli europei verranno utilizzati per finanziare la propaganda pro-UE. Tutto questo mentre gli annunci fatti nei vertici europei di Versailles e Roma si fanno concreti: è appena nato il “PeSCo”, la collaborazione militare Ue, prototipo di un futuro esercito europeo.

Concludiamo con una notizia passata in sordina anche se pubblicata su una piattaforma importante come il blog Alphaville del Financial Times , ma che tuttavia ci riguarda da vicino. Il 9 novembre appena passato, Matthew C Klein scrive un interessante articolo sul reale potere della BCE che non è esclusivamente economico, ma che può avere effetti politici, come è accaduto per il governo Berlusconi nel 2011. Leggiamo le parti più clamorose e interessanti, citando l’articolo tradotto da Voci dall’Estero:

Uno dei momenti più suggestivi della saga dell’euro-crisi è stato quando le élite europee hanno costretto Silvio Berlusconi a lasciare la guida dell’Italia per cedere il posto al non eletto Mario Monti. Ciò è stato possibile a causa dell’appartenenza dell’Italia all’eurozona, e della sua conseguente vulnerabilità alla fuga di capitali e alle crisi bancarie.

[…]

Il potere della BCE sugli stati membri deriva da due caratteristiche essenziali dell’unione monetaria:

I governi nazionali non emettono più obbligazioni sicure

I conti bancari presso banche straniere possono essere considerati altrettanto buoni, se non migliori, dei conti detenuti in banche del proprio paese.

Nei paesi dotati di una valuta propria, come ad esempio la Nuova Zelanda, i cittadini sono quasi costretti ad acquistare le obbligazioni del governo centrale e depositare i soldi nelle banche locali. Questo avviene perché la maggior parte delle spese e dei prestiti contratti dai cittadini sono denominati in valuta locale. Anche se i neozelandesi acquistano molti prodotti dall’Australia e dalla Cina, preferiscono comunque avere i propri risparmi denominati in dollari neozelandesi. Uno dei vantaggi di questo sistema è che il costo del capitale per il governo si muove inversamente rispetto a quello del settore privato, il che rende molto semplice per lo Stato, in linea di principio, compensare i cambiamenti di comportamento di famiglie e imprese.

I cittadini saranno soddisfatti di questa situazione fintanto che le autorità fiscali e monetarie in questi paesi mantengono l’inflazione sotto controllo e impediscono il fallimento degli investimenti percepiti come “sicuri”. Se i governi non tengono fede a questo tacito accordo, i cittadini potrebbero iniziare a portare i soldi all’estero o a investirli in altro modo, per esempio comprando oro, ma normalmente la combinazione di una buona gestione e dell’indipendenza monetaria funziona molto bene.

L’euro è stato creato in parte perché alcuni cittadini in Paesi come l’Italia e la Spagna non avevano fiducia che i propri governi sapessero gestire l’inflazione. Hanno sacrificato deliberatamente l’indipendenza monetaria nella speranza di rimediare a quella che loro credevano fosse una cattiva gestione politica a livello nazionale e locale. O, detto in altri termini, speravano che le élite straniere li avrebbero governati meglio dei loro politici eletti.

Il controllo straniero sarebbe stato imposto dalla minaccia della fuga di capitali. Ai vecchi tempi, tale minaccia sarebbe stata sterilizzata dalla svalutazione della moneta. La gente che fosse riuscita a portare all’estero i capitali subito ci avrebbe guadagnato, mentre gli altri avrebbe dovuto assorbire un po’ di inflazione. Non era un quadro piacevole, ma non provocava nemmeno collassi paragonabili alla Grande Depressione in termini di occupazione e di produzione. Al contrario, sotto la moneta unica… be’, quello che è successo non era stato concordato in anticipo (se ci fossero stati accordi chiari all’inizio, non ci sarebbe stata una crisi).

Il pericolo è chiaro. Se vivi in Spagna, per esempio, guadagni in euro, contrai mutui in euro, e spendi in euro. La maggior parte dei prodotti importati arrivano dall’eurozona. Pertanto, gli spagnoli hanno ottime ragioni per detenere conti bancari in euro e obbligazioni in euro come asset sicuri, ma non hanno alcuna ragione di detenere conti presso banche spagnole o acquistare obbligazioni del governo spagnolo. Questa situazione è intrinsecamente instabile.

Quello che dovrebbe fare una normale banca centrale di fronte a una situazione simile sarebbe assumere il ruolo di prestatore di ultima istanza. Ma la BCE è stata appositamente progettata per essere diversa dalle normali banche centrali. Anziché provvedere direttamente a fornire prestiti di emergenza alle banche che hanno necessità stringente di rimpiazzare i depositi in fuga, essa autorizza le banche nazionali a fare tali presti di emergenza giudicando caso per caso. La BCE ha anche dimostrato di non avere particolare interesse a limitare il differenziale (spread) dei tassi di interesse tra i vari Paesi a meno che il Consiglio direttivo non creda che i problemi di un particolare paese possano porre rischi deflattivi nell’intera unione monetaria.

Queste caratteristiche conferiscono ampia discrezionalità alla BCE nella scelta se concedere – o negare – aiuto alle banche, sulla base di considerazioni politiche. Pertanto Silvio Berlusconi ritiene, non a torto, che ai parlamentari italiani fu detto che la sua caduta era una condizione indispensabile per poter dare ulteriore sostegno ai tassi di interesse e alle banche italiane alla fine del 2011. A metà del 2015, i politici greci hanno toccato con mano cosa succede quando i decisori della BCE prendono posizione nelle negoziazioni su un salvataggio. Pertanto il sistema disciplinare e punitivo esiste, quantomeno in determinate circostanze.

Un articolo che Silvio Berlusconi secondo noi dovrebbe leggere per smetterla di pensare del suo come il “partito dei moderati”. E’ il momento di arrabbiarsi, e parecchio.

Marco Muscillo