di Lorenzo Salimbeni e Valentino Quintana
“Sì com’a Pola presso del Carnaro, ch’Italia chiude e suoi termini bagna” scriveva Dante Alighieri nella Divina Commedia, includendo l’Istria nel territorio di quell’Italia che il ghibellin fuggiasco prefigurava. Si rifece invece ad un’altra citazione dantesca il regista Mario Bonnard allorché girò il film “La città dolente” nel 1949, raccontando l’esodo che svuotò la città di Pola, annessa alla Repubblica Socialista Federativa di Jugoslavia in seguito al Trattato di Pace del 10 febbraio 1947. L’Arena del capoluogo istriano ne attestava le profonde radici latine, l’arsenale navale risaliva ai tempi della Serenissima Repubblica di Venezia ed in tempi più recenti la comunità italiana aveva assunto una venatura politica socialista di stampo mazziniano. Perché 28.000 polesani circa (su 31.000 residenti) decisero di abbandonare tutto ed avviarsi mestamente verso i Centri di Raccolta Profughi sparpagliati nel territorio metropolitano (per un totale di 109) che già da alcuni mesi raccoglievano migliaia di altri connazionali provenienti dal resto della penisola istriana, da Fiume e dalla Dalmazia?
Alla fine della Prima Guerra Mondiale, che per il Regno d’Italia fu Quarta Guerra d’Indipendenza, le cosiddette terre irredente (Trentino, Venezia Giulia, Fiume in seguito ad un travagliato percorso caratterizzato fra l’altro dall’esperienza della Reggenza Italiana del Carnaro di Gabriele d’Annunzio, Zara ed alcune isole dalmate) entravano a far parte dello Stato unitario, con gran disappunto delle comunità slovene e croate ivi residenti che negli anni terminali dell’Impero Austro-Ungarico avevano ricevuto gratificazioni e privilegi in funzione anti-italiana, secondo una logica del divide et impera calata dall’alto che aveva spezzato gli equilibri sociali che avevano garantito da secoli la convivenza sul territorio di gruppi etnici differenti. Le successive prese di posizione slavofobe del cosiddetto “fascismo di frontiera”, favorite anche dalla nascita di gruppi separatisti come l’ORJUNA ed il TIGR che ricorrevano agli attentati, l’invasione della Jugoslavia nell’aprile 1941 da parte dell’Italia, della Germania e dei loro alleati balcanici crearono i presupposti per esasperare ulteriormente i nazionalisti jugoslavi. Costoro già sull’onda dei successi delle Guerre Balcaniche (1912-’13) auspicavano uno Stato slavo da Salonicco a Trieste, inglobando così anche le comunità slavofone nei contesti in cui erano minoritarie. Nonostante i toni ultranazionalisti e anticomunisti che caratterizzarono i vari regimi collaborazionisti (lo Stato Indipendente Croato di Ante Pavelić ed il governatorato militare di Nedić in Serbia), chi auspicava la Grande Jugoslavia trovò ben presto in Josip Broz detto Tito il leader carismatico che prometteva non solo la liberazione dagli occupanti e la nascita di una Jugoslavia socialista, ma anche un allargamento confinario a scapito dei vicini.
L’8 settembre 1943, nel momento del collasso istituzionale, politico e militare che accompagnò la dichiarazione dell’armistizio, non morì solamente la Patria, secondo la definizione di Galli Della Loggia, ma anche un migliaio di italiani in Istria e Dalmazia, trucidati da unità partigiane che avevano approfittato del vuoto di potere per proclamare unilateralmente l’annessione di quelle terre alle rinascenti Slovenia e Croazia federate nella compagine jugoslava capeggiata da Tito. Non si trattò di pulizia etnica, bensì di eliminazione selettiva degli elementi di spicco della comunità italiana autoctona, nonché di funzionari, insegnanti e impiegati che rappresentavano lo Stato italiano sul territorio. Nelle foibe, gli abissi naturali che scendono per decine di metri nel sottosuolo dell’entroterra giuliano e tradizionalmente usati come discarica, finirono quindi i simboli di una presenza statuale che si voleva far sparire, nonché i punti di riferimento di una possibile opposizione al progetto espansionista. Contrapposizioni sociali, politiche e nazionali si fusero in un terribile magma che sconvolse la società dell’Adriatico orientale e si sarebbe riproposto in maniera ancor più dirompente a guerra finita.
Nella fase finale del conflitto, dapprima i bombardieri anglo-americani rasero al suolo Zara, presentata falsamente da Tito come una piazzaforte, laddove l’intento era quello di annientare una città che con i suoi monumenti rappresentava l’italianità dalmata, quindi la cosiddetta “Corsa per Trieste” terminò con il successo dell’esercito di liberazione jugoslavo, il quale trascurò obiettivi che avrebbero indubbiamente fatto parte della rinascente Jugoslavia per concentrarsi sull’occupazione di località la cui sorte era in bilico, come Trieste, Gorizia, Fiume e l’Istria. Le avanguardie anglo-americane giunsero sul posto poche ore dopo, ma ormai la seconda ondata di uccisioni era stata avviata. Ancora una volta bersagli privilegiati non furono tanto ex fascisti o collaborazionisti dei nazisti, quanto esponenti della società civile e partigiani italiani che avevano saputo coniugare con l’italianità gli ideali della lotta resistenziale. Già in precedenza delazioni e soffiate ai comandi tedeschi operanti nella Zona di Operazioni Litorale Adriatico avevano inferto duri colpi ai gruppi partigiani italiani, adesso si giungeva al paradosso che l’eliminazione riguardava indistintamente storici esponenti dell’irredentismo locale e reduci appena rientrati dai campi di concentramento nazisti, accomunati dalla colpa di credere nell’italianità di quelle terre, pur nella consapevolezza di dover definire un nuovo confine maggiormente rispettoso delle diversità etniche presenti. Tra persone infoibate, altre gettate in mare con una pietra legata al collo e altre ancora deportate, le stime esatte sulle vittime di questi Quaranta Giorni (primo maggio-10 giugno 1945) sono imprecise ed oscillano fra 5.000 e 10.000, contando magari anche i militari catturati a guerra finita ed eliminati.
La soluzione compromissoria concordata a Belgrado il 9 giugno 1945 che spartì la regione contesa in una Zona A sotto Governo Militare Alleato (Trieste, Gorizia e Pola) ed una Zona B sotto Governo Militare Jugoslavo (entroterra giuliano e Fiume) pose momentaneamente fine alle uccisioni di massa, anche se l’attentato di Vergarolla che provocò quasi un centinaio di morti e circa 200 feriti fra i civili di Pola, l’annientamento del Comitato di Liberazione Nazionale in Istria ed il rifiuto di Palmiro Togliatti alle richieste dei comunisti italiani locali di poter riprendere le armi per contrapporsi ad una nuova occupazione straniera colpirono duramente chi ancora si cimentava per l’appartenenza all’Italia di queste martoriate terre.
Il Trattato di Pace colpì pesantemente l’Italia, che dovette in particolare cedere alla Jugoslavia Istria, Fiume e Dalmazia, ma a Belgrado non mancarono i malumori: Gorizia, ancorché attraversata dal confine, restava italiana, la sorte di Trieste rimaneva in bilico fino alla seconda redenzione italiana del 1954 con l’espediente del Territorio Libero di Trieste e le rivendicazioni in Carinzia che non erano state accolte. Nel frattempo Stalin non vedeva di buon occhio il ruolo egemone che Tito voleva ritagliarsi nei Balcani, trattando l’Albania alla stregua di uno Stato satellite e la Bulgaria come un’entità da inglobare in una federazione balcanica incentrata sullo statista croato, senza astenersi dal rimestare nel torbido della guerra civile ellenica con l’auspicio di attirare pure Atene nella propria orbita. Nel 1948 l’uscita della Jugoslavia dal Cominform ed il contestuale avvicinamento alla NATO affondano le radici nel malumore destato dal ridimensionamento di una politica di potenza che il Cremlino si guardò bene dall’assecondare.
Mentre si spiegavano sullo scenario internazionale i presupposti della Guerra Fredda, il 90% della comunità italiana presente da secoli sulle coste dell’Adriatico orientale esercitava l’opzione per la cittadinanza italiana, pur tra mille difficoltà burocratiche da parte delle autorità jugoslave, spaventate dall’esodo di massa che andava delineandosi, e si avviava alla triste condizione di rifugiati in patria. In meno di quindici anni, più di un quarto di milione di persone abbandonò i territori passati sotto la nuova repubblica federativa jugoslava. Per molto tempo il nostro Paese fu attraversato da flussi di prigionieri, e profughi che si confondevano nel marasma del dopoguerra. Scapparono in molti, moltissimi. Quasi tutti italiani, ma anche sloveni e croati perseguitati dal nuovo regime di Tito. Quella che purtroppo ebbe luogo, fu una vera e propria diaspora. L’Italia democristiana dell’epoca si presentò impreparata ad accogliere quel flusso continuo di persone che lasciava tutta l’Istria e le ultime zone della Dalmazia. Non sapeva dove indirizzarli, rendendo gli anni successivi alla fuga dalla propria terra, per quelle disgraziate persone, durissimi. Solamente la solidarietà umana rompeva il muro di paura, diffidenza e talvolta omertà diffusosi nel Paese. Gli esuli, privi della loro terra, partiti con pochissime cose, qualche rara masserizia e senza denaro, furono schedati, vennero prese loro le impronte digitali, quasi fossero dei criminali. Dovettero integrarsi in contesti sociali nuovi, profondamente diversi dalla terra di provenienza. E soprattutto, ebbero il marchio, infamante, di essere fascisti, poiché stavano scappando dal paradiso socialista quale era considerata la Jugoslavia di Tito in quel momento.
Se poi pensiamo, che questa presunta etichettatura fosse svanita, col tempo, si sbaglia ancora una volta. Dopo vent’anni dalla tragedia dell’esodo giuliano – dalmata, molti datori di lavoro, quando selezionavano delle persone che avevano nella carta di identità indicato come Paese di nascita una località istriana, o dalmata, veniva rifiutavano il candidato con lo stesso pretesto: si trattava di un fascista, uno spettro pericolosissimo per l’italietta democristiana. Non è l’unica responsabilità dell’Italia post bellica.
Il Trattato di Pace, appunto del 10 febbraio 1947, ha imposto all’Italia di versare alla Jugoslavia 125 milioni di dollari per l’aggressione del 1941. Tito dichiarava così: «Mi tengo i beni dei profughi e in conseguenza riduco di 72 milioni di dollari (pari a 45 miliardi di lire) il debito di 125 milioni di dollari che il Trattato ha imposto all’Italia». E così avvenne. Ci si può interrogare sul perché il Governo italiano abbia pagato metà di questo debito nazionale tramite i beni privati dei profughi, i quali, contemporaneamente, vivevano grazie al sussidio dei poveri nelle baracche di 109 campi profughi mentre altri ottantamila (!) sono emigrati nelle Americhe e in Australia. Molti ricorderanno, infatti le bianche motonavi che partivano ogni settimana, in particolar modo da Trieste, che prendevano i nomi di: Castelverde, Fairsea, Flaminia e la notissima Toscana, in un misto di sentimenti che oscillavano tra tristezza e disperazione.
L’esodo interessò un arco temporale molto lungo, superiore ai dieci anni. Vide diverse tappe, scandite dalle vicende prima belliche, poi del trattato di pace, e poi della divisione del cosiddetto Territorio Libero di Trieste. Una cosa è certa, ed è che si trattò di una grandissima tragedia collettiva, durante la quale l’Italia perse un suo prezioso lembo di Patria, perirono diversi innocenti, e lasciarono la loro terra, senza avere nulla in cambio, centinaia di migliaia di persone. Il significato del Giorno del Ricordo, è questo: riallacciare, tramite le corde del cuore, le fila di una catena spezzata. Un dovere morale nei confronti dei nostri avi e delle generazioni che verranno.