Anti-dumping: arma dell’Occidente nel commercio globale?

L’Unione Europea con il recente voto all’Europarlamento sembra orientata verso il non riconoscimento della Cina come “economia di mercato”, status che sarebbe da concedere al Paese asiatico il prossimo Dicembre, a distanza di quindici anni dal suo ingresso nell’Organizzazione mondiale del commercio. La clausola che impedisce alla Cina l’equiparazione ai membri più anziani andrebbe infatti a scadenza, ma numerose voci si sono levate contro questo cambiamento che andrebbe, secondo alcuni, a penalizzare le aziende e i lavoratori europei.

Economia di mercato: una questione politica 

Riconoscere al Paese asiatico questa nuova posizione è un elemento importante di discussione in quanto l’Europa sarebbe costretta alla riduzione dei dazi doganali imposti alle merci in ingresso dalla Cina. Recentemente, voci politiche di differenti schieramenti e diverse testate giornalistiche disegnano scenari apocalittici conseguenti ad un abbattimento delle barriere nei confronti del gigante asiatico. E’ tuttavia da sottolineare che la stessa direzione generale delle politiche estere del parlamento europeo ad ammettere che: “Le implicazioni economiche della concessione del SEM (status di economia di mercato ndr) alla Cina possono essere positive per alcuni settori dell’economia e negative per altri. Tuttavia, ad oggi, non è stata ancora realizzata una valutazione d’impatto esauriente. Di conseguenza, continua a non essere chiaro quale può essere l’effetto netto sull’economia dell’UE”1.

La Repubblica Popolare Cinese, per la commissione, continua ad avere un ruolo attivo nella propria economia, questo compromette la parità di condizioni tra le imprese cinesi e i concorrenti stranieri negli scambi internazionali. Le sovvenzioni statali, permetterebbero infatti alle aziende di vendere a costi ribassati le proprie merci, anche al di sotto del costo di produzione, generando un vantaggio competitivo artificiale che collocherebbe fuori mercato le imprese europee. In alcuni casi, gli stessi prodotti verrebbero esportati a prezzi inferiori rispetto quelli fissati nel mercato interno. Sia questo comportamento, definito dumping, come in linea generale l’eccessivo intervento dello Stato nell’economia non soddisfano i cinque criteri stabiliti dall’UE nel suo regolamento antidumping di base (regolamento (CE) n. 1225/2009) per la concessione del SEM alla Cina.

E’ pacifico che il dibattito abbia abbandonato la strada giuridica e scientifica per diventare una mera questione politica. Seppure esistano storie di dumping e sovvenzioni statali per la Cina, tali pratiche caratterizzano le politiche di tanti altri membri del WTO che possono vantare invece lo status di economia di mercato. Non esiste infatti un parametro chiaro per “misurare” l’intervento statale come attore del mercato, come non è presente per “l’eccesso di dumping”.

Liberisti ma non troppo

Se da un lato l’occidente mira alla massima espansione del libero mercato (in uscita), per fare incetta di domanda estera e sbarcare con i propri prodotti in sempre nuovi mercati, dall’altra parte abusa di misure protezioniste per regolare l’accesso e i prezzi delle merci estere, legittimate dai regolamenti antidumping. E’ dimostrato, in particolare, che l’occidente ha discriminato per anni le importazioni dai Paesi poveri, imponendo dazi soprattutto ai prodotti agricoli e a quelli dell’industria con alta intensità di lavoro, dove molti paesi del sud sono altamente competitivi2.

Per anni, all’interno degli accordi commerciali di libero scambio, gli Stati Uniti hanno inondato gli emergenti con materie prime vendute sottocosto, prodotti da settori dell’economia americana fortemente sovvenzionati dal denaro pubblico provocando il collasso del settore primario dei Paesi in via di sviluppo. In egual modo, anche l’Unione Europea ha da un lato bloccato le importazioni dei beni agricoli dai paesi africani dall’altro ha sovvenzionato il proprio settore primario favorendo le esportazioni sotto costo verso gli stessi Stati. Nonostante questo nessuno ha mai messo in dubbio che i principali poli del commercio globale siano economie di mercato.

Non è una novità insomma che, come disse Noam Chomsky: “i paesi ricchi facciano i socialisti in casa propria e i capitalisti nei paesi poveri”.

Dumping sociale: Germania o Cina?

L’Unione Europea come il WTO, fanno della lotta alla concorrenza sleale la loro bandiera. In questa ottica, la Cina viene spesso accusata di dumping sociale: condizioni di lavoro “ingiuste” che permettono di tenere basso il costo del lavoro e dunque rendono i prodotti cinesi più competitivi.

Quindici anni dopo l’adesione della Cina all’OMC, la maggior parte degli analisti riconosce che il paese ha compiuto notevoli passi avanti verso una maggiore apertura del mercato nonché genuini sforzi per ridurre l’interferenza statale nella gestione dell’economia, come testimoniato dalla approfondita analisi compiuta dalla direzione generale delle politiche estere del parlamento europeo. Allo stesso tempo, è indubbio che l’aumento dei salari minimi registratosi negli ultimi anni sia stato elemento determinante per la riduzione della povertà non solo cinese ma globale e per il miglioramento delle condizioni lavorative. La stessa cosa non si può certo dire per l’Europa e in particolare per la Germania che ha creato il proprio vantaggio competitivo ai danni degli Stati periferici attraverso accanite forme di deregolamentazione del lavoro e più in generale di dumping sociale e salariale. Per questo motivo, circa tre anni or sono, due ministri belgi dopo che alcune aziende del loro paese sono state costrette a chiudere per concorrenza sleale (a detta loro), accusarono Berlino davanti alla Commissione per dumping sociale, visto lo sfruttamento di lavoratori immigrati pagati 3-4 euro l’ora senza contributi e in condizioni sanitarie disastrose. Dal 2003, infatti, mentre diversi Paesi europei contrastavano la crescita del debito pubblico con tagli di spesa, la Germania iniziò a creare il proprio vantaggio competitivo sui propri partner commerciali: da una parte con le riforme del lavoro che ne abbassarono il costo dall’altra con il forte il flusso di denaro pubblico che fece esplodere il debito tedesco ma che permise di attutire l’impatto drammatico della deregolamentazione.

Anti-dumping emergenti

La Cina è stata per anni un obiettivo facile, e più di ogni altro Paese ha subito, attraverso i regolamenti antidumping l’imposizione di dazi aggiuntivi (margini di dumping) sul valore nominale dei prodotti esportati in occidente. Essendo poi un membro “di serie b” ha subito margini maggiori rispetto agli altri affiliati che pur praticando dumping sono all’interno del WTO come membri “non surrogati”. Le aziende e le istituzioni del Paese asiatico, si caratterizzano per una carenza di competenze e di esperienza che non ha permesso loro di difendersi adeguatamente dinnanzi ai tribunali stranieri e internazionali. Paesi come l’India invece, hanno capito da subito che la politica antidumping sarebbe stata la sua spada ed il suo scudo nella guerra del commercio globale. Seppur nel 2014 sia stata una delle tre nazioni più colpite dalle iniziative anti-duping, dal 1995 ad oggi ha risposto avviando il maggior numero di cause antidumping, coprendo da sola il 15% del totale, permettendo una ampia (per alcuni eccessiva) copertura dalla concorrenza dell’occidente.

In questo contesto commerciale, a dir poco bellico, non sorprende la probabile mancata concessione dello status di “economia di mercato” alla Cina, non certo per una questione meritoria, ma per il fatto che l’Europa farà il possibile per mantenere nelle proprie mani un’arma che gli permette di isolare a proprio piacimento l’economia interna dalla concorrenza della Cina, difendendo le proprie aziende anche creando in alcuni casi un torto al consumatore. Di certo, queste misure protezioniste, stridono nel mondo sempre più globalizzato e iperliberista auspicato dall’occidente.

1 https://www.europarl.europa.eu/RegData/etudes/IDAN/2015/570453/EXPO_IDA(2015)570453_IT.pdf

2 Elliot, Kimberly Ann. 2006. Delivering on Doha: Farm Trade and the Poor. Washington, DC: Institute for International Economics.

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